La scienza non (sempre) ha coscienza: dopo i filosofi, ma prima di tutti gli altri, gli stessi scienziati ce lo hanno detto e continuano a ripeterlo. Considerato uno dei padri della bomba atomica, lo statunitense Robert Oppenheimer non si pensava certo come un nuovo Prometeo. Uomo di eccezionale cultura, leggeva il sanscrito e non aveva atteso i terrificanti bagliori di Hiroshima e Nagasaki per citare l’indù Bhagadava Gita:”Ora io sono diventato la morte, il distruttore dei mondi…”. L’argentino Ernesto Sabato, brillante fisico teorico e comunista libertario, collaboratore a Parigi dei Nobel Pierre e Marie Curie, ha prima abbandonato la politica per la scienza, poi la scienza per la letteratura e per dipingere in diverse opere l’avviso d’incubo che percepiva nello scientismo della cultura occidentale.
Braccio armato della scienza moderna, la tecnica è un sapere mercificato sempre più complesso e pervasivo che insegue risultati di cui non necessariamente conosce le conseguenze ultime. Anche perché queste sono ormai il frutto di interazioni d’ordine geometrico, non si sommano vanno bensì moltiplicandosi. Sebbene in forme semplificate e dunque inevitabilmente approssimative, ma non perciò equivoche, questa è una verità ben nota. Potremmo dichiararla ovvia e darla per scontata. Se non fosse che viene generalmente rimossa, in quanto non solo per essere compresa e fatta propria richiede un grado d’attenzione che spesso non ci sentiamo di spendere, ma probabilmente è anche fonte d’inquietudini così profonde che prevale in molti di noi la tendenza istintiva a sottrarvisi.
Sappiamo che Cupertino non è Los Alamos, il digitale non si misura in megatoni e per fortuna non scoppia, non in senso letterale. Semmai una sua metafora negativa potrebbe essere la bomba ai neutroni, l’ordigno N capace di distruggere la vita organica risparmiando quella inorganica: uccide l’uomo lasciando salve le cose. Sarebbe tuttavia una metafora impropria oltre che smisurata. Poiché computer, social-network, Internet, il digitale e le sue infrastrutture in quanto tali non soltanto sono strumenti del tutto pacifici, ma in via di principio e anche di fatto avvicinano gli esseri umani al sapere e tra di essi, facilitandone prodigiosamente la comunicazione e dunque la reciproca conoscenza. Da un punto di vista illuministico, impossibile desiderare di meglio. Oggettivamente, si tratta di mezzi che trasformano fin nelle viscere la società umana e gli equilibri in cui viviamo a ritmi frenetici.
Computer, telefoni cellulari, tablet, tutte queste connessioni -i cui terminali, già da tempo tascabili, ci arrivano tra le mani in successive e sempre perfettibili miniaturizzazioni destinate a divenire presto vere e proprie protesi applicate nei corpi umani- permettono a genitori, figli, parenti e amici vari di rassicurarsi reciprocamente anche oltre il necessario, in un’ansia di comunicazione spesso priva di contenuti; e al sistema nel suo complesso, dunque a chi ne detiene il controllo, di vigilare capillarmente l’intera popolazione mondiale, ormai vicina agli 8 miliardi di persone.
Le loro esistenze quotidiane vengono intanto rivoluzionate dalle molteplici, inedite applicazioni delle tecnologie in permanente innovazione ai sistemi di produzione e consumo materiali e immateriali in concorso tra loro. Ma nel percorrere tale processo solo apparentemente neutro, redistribuiscono funzioni e prerogative delle istituzioni, ruoli e identità individuali, poteri, sogni e realtà. Della storia hanno aperto un capitolo inedito, ridisegnano anche la geografia, d’ogni lingua inducono una grammatica-pocket che di tutte abbassa lo standard. Generano contemporaneamente illusioni e sconcerto. Troppo al servizio dell’immediatezza, vissuta come una incessante epifania. Lo spaesamento individuale e collettivo che ne deriva è già un elemento tangibile della psicologia di massa, così come dell’instabilità sociale.
Transitiamo per una nuova epoca, qualche tempo addietro neppure immaginabile. Questo è un fatto. Ma affidarci fideisticamente alle promesse che le attribuiscono i suoi profeti, non sembra saggio. Quasi il passato, l’esperienza fossero da buttare nella differenziata come non riciclabili. La vita in un logaritmo, è la formula per troppi versi arcana del futuro così intravvisto. Nè ci si può ragionevolmente aspettare che a disvelarlo siano Bill Gates, gli eredi di Steve Jobs, Mark Zuckemberg, i loro amici e soci, che genialità a parte (vale nondimeno la pena di ricordare che la ricerca di base e la costruzione di Internet sono state fatte da altri ricercatori non meno geniali, per iniziativa e a spese dell’erario pubblico statunitense, cioè di tutti contribuenti), somigliano ben poco a Robert Hoppenheimer ed Ernesto Sabato.
Non mostrano molta dimestichezza neppure con la cultura più coerente, che tutt’ora ci avverte come a dare un senso alla vita possano essere soltanto gli uomini, non certo le macchine, per intelligenti che siano. Più che auspicabile appare necessario e urgente un risveglio collettivo che corra su tutti i sentieri del web e anche oltre, per non lasciare un futuro già presente nell’oggi esclusivamente tra le agili ma fredde dita degli addetti ai lavori. Poiché nel rifare il mondo, sistema digitale e nuovi logaritmi possono arrivare a disfare il tessuto storico di società, valori, istituzioni e diritti, senza alcuna garanzia che tutto non precipiti in un sistema oligarchico globale. E il luddismo non c’entra; infatti neppure viene più nominato, giustamente. Ad entrarci, invece, è la politica. Sarebbe sano per tutti parteciparvi quanto più possibile.
Livio Zanotti – Ildiavolononmuoremai.it