Mentre gli animi sono rivolti alla scadenza referendaria e l’occhio va al tema della par condicio, il vascello della Rai naviga in un mare dominato dalle corazzate dell’era digitale senza una chiara meta.
Infatti, ancora è oscura la vicenda del rinnovo della concessione con lo stato, già rinviata al 31 gennaio 2017 dalla recente legge sull’editoria. Persino quest’ultima data rischia di slittare, visto che per il suo parere obbligatorio la commissione parlamentare di vigilanza ha trenta giorni di tempo. E poi, ovviamente, il governo dovrà approntare l’articolato definitivo. Insomma, tra feste natalizie e pause parlamentari, si arriverà con il fiatone. E sottolineo se, cantava Mina. Insomma, dopo il fiore all’occhiello della consultazione pubblica che faceva presagire un’altrettanto trasparente scrittura del testo, il sole è calato rapidamente. E’ solo il solito ritardo o c’è un conflitto nascosto sulla stessa fisiologia della Rai? Voci di dentro sussurrano e gridano di tagli e ridimensionamenti. Potrebbero essere rivisti in basso gli affollamenti pubblicitari. In tale direzione andrebbe pure l’inserimento da parte dell’Istat dell’azienda nel territorio proprio dell’amministrazione, sotto l’egida della corte dei conti. Sacrosanta misura, ma da rapportare alle necessità della concorrenza di mercato. Tuttavia, poniamo pure che la scelta del governo sia di sciogliere ogni ambiguità, propugnando una chiara strategia di “tutto pubblico”, seguendo le orme –su scala ridotta- della Pbs, la rete pubblica degli Stati Uniti prestigiosa ma laterale rispetto al flusso comunicativo. Allora, però, stridono la decisione dell’esecutivo di inserire nella legge di stabilità l’ulteriore riduzione (da 100 a 90 euro) del canone, nonché la parziale sottrazione alla Rai medesima dell’eventuale surplus degli introiti mutuati dalla bolletta elettrica. Viale Mazzini assumerebbe, così, sembianze “mediane”, né pubbliche né private. Il sottosegretario Giacomelli si è convertito ad una versione paradossale della “decrescita serena” di Latouche?
E’ interessante l’articolo di Luca Baldazzi e Piero De Chiara pubblicato dal sito di “Articolo21”, laddove fa il paragone con il coevo rinnovo di convenzione e concessione della Bbc, lì chiamate Royal Charter e Framework Agreement. Per esempio, il finanziamento tramite il canone –da anni fisso a 145,5 sterline l’anno- sarà stabilito in due tranche quinquennali (proprio come da noi…), per garantire maggiore indipendenza e capacità previsionale al Public Broadcasting che più di tutti ha fatto storia e scuola. Il mitizzato modello della Gran Bretagna viene sempre evocato nei convegni, mentre all’atto pratico la strada intrapresa sembra ben diversa.
Cosa ci aspetta, quindi? Una Rai indebolita e trasformata sine die in un’azienda minore controllata dal governo, così sembrerebbe dalla sequenza di atti ed omissioni in corso. Le stranezze non mancano. Da una indubbia vitalità della fiction, uno dei capitoli essenziali per il palinsesto, traspare il contrario. Come palese diviene la distanza dalla legge sul cinema appena varata, che annulla di fatto le differenze tra vecchio schermo e televisione, con implicito rinvio ad una Rai intesa come forte impresa della e nella concorrenza globale.
Tutto ciò evoca strategie pallide e confuse, piuttosto che linee certe. Prolegomeni di una crisi. Eppure, oggi il servizio pubblico è (potrebbe essere) di cruciale importanza, per fornire all’intera comunità nazionale gli strumenti cognitivi necessari per la cittadinanza digitale.