BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Ragazzi di vita  e di morte

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Al Teatro Argentina di Roma, Massimo Polìpolizio ed Emanuele Trevi danno consistenza teatrale al romanzo di Pasolini che, nel 1955, al suo apparire, fu accusato di oscenità.

Non pare abbia alcun alone di nostalgia, di affresco o ritrattistica calligrafico-retroattiva questa vivida, esuberante, dolente edizione scenica di “Ragazzi di vita” che Massimo Popolizio traspone, sul palcoscenico del Teatro Argentina, a compimento (provvisorio) della celebrazioni laica e per nulla trionfalistica (tutt’altro: la verità “su quella notte all’Idroscalo” abita nel porto delle nebbie) che il Teatro di Roma rivolge al quarantennale di una morte violenta cui troppi detrattori (oggi invisibili) attribuirono a Pasolini quasi l’ardore di  un auto martirio, di un genetiano ‘commediante e martire’ mille miglia lontano dal piacere di esistere, di esserci, di polemizzare con spirito ‘pirata’ che ammorbidiva, nella sfera dei più intimi affetti, il nichilismo di fondo cui – per più d’un movente- precipitava, con il ‘piombo’ di quegli anni, e di quelli che vennero, l’analisi socio-politico-esistenziale (raro esempio comparativo di coerenza, conoscenza, intuizione, cultura) che l’intellettuale friulano seppe raggrumare nell’atroce apologo (testamentario senza volerlo) di “Salò le 120 giornate di Sodoma”. Film la cui lavorazione, secondo la tesi di un  acuto, plausibile film di David Grieco (“La macchinazione”) fece da prologo al finale agguato di Ostia Lido (liddove il Pelosi fu capro espiatorio cotto e mangiato).

Nonostante tali premesse, anzi in acuto contrasto con esse, lo spettacolo di Popolizio (che si dischiude, probabilmente, a vita futura con ‘ripresa’ e tournée l’anno venturo, dopo il sold out delle repliche romane) ha un andamento leggero, euforico, persino “arcadico” nella sua crudezza poetica e “realismo” d’un tempo immoto, del quale Pasolini intuiva benissimo (e la messinscena lo evidenzia) la trasformazione da emblematica, ideale “innocenza dell’uomo”  in omologazione verso il basso, pensiero unico e soverchiante, quindi  crogiolo di “piccoli banditi (crescono)”, bande della Magliana, losche compromissioni vaticane (lo Ior di Marcinkus, la finanza secondo Calvi e Sindona), cospirazioni tra politica\spazzatura (capitolina) e bracci esecutivi del tipo Odelvine, Buzzi, Carminati e compagnia cantante.

E’ quindi – e a mio parere- quasi un affresco, un ricordo della “Roma che mai più sarà” questo obliquo, sincopatico, mai (del tutto) felice poemetto alla gioventù “che venne meno” questa esperienza scenica che vorremmo assimilare a quella breve parentesi di “fantasia al potere” (icastica, smaliziata, bulimica di piacere fisico) in cui si dispiegò, per breve tempo, l’opera di Pasolini, mediante “Decamerone” e “Fiore delle Mille e una notte” – più  l’intermezzo del “Racconti di Cantherbury”, in bilico tra errabondo edonismo, sotterfugio ecclesiale e saettanti premonizioni di morte.

Di suo, la  regia di Massimo Popolizio (palesemente erede dalla lezione ronconiana  privilegiante l’antinaturalismo) esalta (ed azzarda) sull’inventiva commistione di linguaggio fantastico e   tribale eloquenza- di cui Pasolini fu ossessivo rabdomante “fonema per fonema, lemma per lemma”- riorganizzandone  la fonte narrativa  in capitoli totalmente diversi dalla loro origine letteraria. Ovvero,  spronando con maieutica energia i diciotto giovani attori “ad entrare in quel mondo e in quella cornice” come se si trattasse di una sorta di neo.battesimo laicissimo, goliardico, liberatorio ai nuovi canoni della “vita imposta” dall’alto.   Entusiasmo, dedizione, talento, inventiva diventano così parte essenziale di un’interpretazione individuale e collettiva,  esaltata dalla bella e nuda la scena- disegnata da Marco Rossi- che sul palcoscenico vuoto, come per elementare miracolo sbrinato in una qualsiasi alba capitolina “mette in moto” (ricorrendo a basilari  elementi di scenotecnica)  balere da “Accattone”, parapetti sul Tevere e sull’Aniene, un bus semovente da fermo, brandelli zozzi della spiaggia di Ostia, osterie del tempo perso  “e persino una decrepita   platea cinematografica” (come da note di regia)

L’angolazione visiva di Popolizio diverge tuttavia da quella pasoliniana,  allorchè quel certo universo o microcosmo  esplode come immane “formicaio” bisognevole di tutto “eppure spensierato”, come in  un brulicante, “edificante” capolavoro di Castellani (“Sotto il sole di Roma”), e in quell’anomalo decennio che seppe- quasi un unicum storico- smaltire  le piaghe del dopoguerra e, tramite piano Marshall, avviarsi agli effimeri, criminogeni anni del  “benessere a strozzo” (comunemente inteso come ‘boom’, che tale divenne, come dinamite ‘ad orologeria’, e tanto cinema di Risi, Scola, Monicelli intravidero). Persiste semmai, ed  in chiave utopistica, quella che Hannah Arendt definiva una “aspirazione libertaria dell’azione, nell’epoca del conformismo sociale”, peraltro sfiduciata da ogni criterio o soluzione di democrazia rappresentativa (per sua natura declinante nell’oligarchico), cui Pasolini dedicava tutto lo scetticismo, l’avverso-parere, il giornalismo di indagine e di ‘razionale supposizione’ che convivevano, dapprima in modo idilliaco, poi sempre più mercenario con quel brulicare di Riccetti, Frocetti, Fusajari che sono i personaggi –chiave di “Ragazzi di vita”. Senza mai assurgere al ruolo di protagonisti.

Esiste probabilmente il rischio di una ‘rivisitazione’ neorealista fuori tempo e fuori luogo. Ma la totale assenza di idealizzazione, vagheggiamento, degustazione da “paradiso perduto” (peraltro applicate al senso di straneazione temporale derivata da Ronconi, dall’antinaturalismo distanziato che è il frequente passaggio dal dialogo alla narrazione in terza persona, come fu nel gaddiano “Pasticciaccio…”)  lascia che la raffigurazione decantata, cialtrona, persino umoristico-giocosa  del “mondo di ieri” avvenga come nella circolarità quasi astratta, “usoborica” di un bestiario umano innocente di nulla, e sempre capace, per ignoranza ed italica strafottenza, di dare il peggio di sé – nella comunque polverizzata (scientificamente) coscienza ed appartenenza ad una determinata classe o gruppo sociale. Dotato di diritti, prima che di dovere a “uniformarsi”- e farsi bello- per  nuovi saldi di stagione “senza più idee e ideologie” (figurati se di sinistra…)

Ragazzi di vita
di Pier Paolo Pasolini
drammaturgia Emanuele Trevi
regia Massimo Popolizio
con Lino Guanciale,  Sonia Barbadoro, Giampiero Cicciò, Roberta Crivelli,
Flavio Francucci, Francesco Giordano, Lorenzo Grilli, Michele Lisi,
Pietro Masotti, Paolo Minnielli, Alberto Onofrietti, Lorenzo Parrotto,
Cristina Pelliccia, Silvia Pernarella, Elena Polic Greco,
Francesco Santagada, Stefano Scialanga, Josafat Vagni, Andrea Volpetti
scene Marco Rossi  costumi Gianluca Sbicca  luci Luigi Biondi
canto Francesca Della Monica  video Luca Brinchi e Daniele Spanò
assistente alla regia Giacomo Bisordi   Teatro Argentina, Roma


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