Quanto ci manca un galantuomo come Lucio Magri! Esattamente cinque anni fa, all’età di 79 anni, questo comunista eretico, uno degli intellettuali più colti, irriverenti e complessi della storia della sinistra, sceglieva di andarsene con un suicidio assistito in Svizzera, al termine di un lungo periodo di depressione, dovuto alla scomparsa della moglie e, probabilmente, anche alla progressiva scomparsa di tutte le utopie e le speranze che avevano caratterizzato e dato un senso alla sua vita.
Un addio che brucia e fa male, un addio da rispettare nella sua brutalità, un pugno nello stomaco per quanti in quella piccola ma agguerrita comunità del Manifesto si riconoscono fin dai tempi delle battaglie movimentiste degli anni Settanta, quando il PCI si dimostrò incapace di comprendere l’evoluzione dei tempi e dello scenario politico internazionale, nonostante la segreteria di Berlinguer e risultati elettorali più che positivi.
Dal diritto al dissenso rivendicato da Ingrao nel corso dell’XI congresso, tenutosi a Roma nel gennaio del ’66, all’espulsione del gruppo del Manifesto nel ’69, in quanto il partito non accettava correnti e tacciava di frazionismo quei compagni che avevano scelto la strada dell’eresia, della condanna esplicita della barbarie sovietica per le vie di Praga, dell’attenzione critica ma scevra da pregiudizi nei confronti di Mao e, più che mai, della ricerca di una strada diversa rispetto all’eccessivo istituzionalismo della casa madre, prestando ascolto alle voci provenienti dalle piazze giovanili, così ricche di rivendicazioni, di propositi battaglieri e di richieste esplicite di un’alternativa di sinistra al trentennale predominio democristiano che Berlinguer, al contrario, sfidava con la proposta del Compromesso storico, in seguito a un’altra tragedia destinata a segnare in modo indelebile la storia del Novecento, ossia il golpe cileno dell’11 settembre 1973, con l’assalto alla Moneda e la drammatica fine del presidente Allende.
E poi, come detto, l’avvenrura del Manifesto: un coraggioso quotidiano di lotta, tuttora orgogliosamente comunista, sostenitore della sfida minoritaria ma comunque dignitosa del PDUP e poi della resistenza di quanti, dagli anni Ottanta in poi, hanno scelto di non arrendersi, di non rassegnarsi alla barbarie del liberismo selvaggio, di non partecipare all’orgia del potere che ha condotto la sinistra di un tempo a destra della destra stessa e di continuare a remare in direzione ostinata e contraria, combattendo con pochi mezzi, fra scissioni, dolorosi addii e problemi di carattere economico e di visibilità, contro questa deriva di cui solo oggi cominciamo a comprendere la dannosità e le conseguenze socio-politiche.
Una vita di lotta, una vita trascorsa al servizio di una causa nella quale non ha mai smesso di credere, una vita spesa a battersi contro quella parte del suo stesso mondo che, oltre a considerarlo un eretico, lo reputava anche, fondamentalmente, un illuso; una vita degnissima, insomma, persino nella triste sobrietà di un addio che ci lasciò senza parole, immerso com’era nei rimpianti, nelle sofferenze e nello strazio per un degrado morale che una persona come lui non riusciva più a sopportare.
Se ne è andato cinque anni fa quest’uomo che ha cercato, creduto, inseguito un ideale fino a viverlo dentro di sé e a farne il centro di un’esistenza votata interamente alla costruzione di una società più giusta, in nome di quel socialismo dal volto umano di cui tanto Dubček quanto Allende furono nobili e stimati interpreti.
Cinque anni senza un uomo che anche nel suo ultimo, magistrale scritto sulla storia del PCI, intitolato non a caso “Il sarto di Ulm”, ci ha raccontato la storia del PCI come è stata e come avrebbe potuto essere, mettendo in evidenza lo iato fra l’assurdità di certe scelte e la limpidezza di ciò che si sarebbe potuto e dovuto fare nei momenti di svolta del nostro Paese.
Ci lasciò senza clamore, martoriato dallo sconforto ma ancora estremamente lucido, con l’animo di un militante ferito ma ancora determinato a combattere, cambiando unicamente il proprio terreno di lotta. E siamo certi che il compagno Magri, anche lassù, abbia continuato a cercare, coltivando l’irrequieto splendore della sua prosa in grado di costruire un immaginario che purtroppo, e lo dico con infinita amarezza, non si è mai trasformato, se non in minima parte, in realtà.