L’ultima volta che abbiamo sentito Leonard Cohen dal vivo lo abbiamo sentito insieme. Insieme abbiamo sognato che fosse lui ad aprire idealmente quel concerto planetario dedicato alla musica di Fabrizio De André che Wim Wenders ha tanto e tanto a lungo desiderato promuovere e filmare. Senza Cohen, senza Lou Reed, quella speranza si spegne. Restano Bob Dylan, David Byrne, Patti Smith, pochi altri legati da quella sorta di “grande alleanza”cantautorale misteriosa e ideale.
Io, Dori, ho amato Leonard Cohen per quella straordinaria persona che era, e non posso pensare di perderlo come artista, è un vuoto insopportabile. Mi mancherà, mi manca già tanto anche la sua umanità, siamo un po’più soli, oggi. Lo ascoltavo prima ancora di conoscere Fabrizio, da insaziabile divoratrice di musica ho tutti i suoi primi vinili. Ho conosciuto Fabrizio, caso vuole, proprio mentre registrava l’album “Canzoni”, con le traduzioni di Dylan e, di Cohen, “Suzanne” e “Giovanna d’Arco“. Me le fece ascoltare e di colpo, pur conoscendole e amandole in originale, sono stata completamente rapita dalle sue versioni. Credo che Cohen per Fabrizio abbia significato non solo ricchezza di conoscenza ma la chiarezza definitiva che si può essere “diversamente” artisti anche da noi in Italia, che si può fare questo mestiere col massimo di rigore e dignità. Lo ha aiutato a superare timori e perplessità che gli venivano dalle sue radici borghesi.
Di Cohen Fabrizio ha inciso “Suzanne”, “Giovanna d’Arco”e “Nancy”, tre canzoni-capolavoro dedicate alle donne, un sentimento, e un punto di vista, che li hanno accomunati da subito. Avevano, verso le donne, lo stesso amore e lo stesso rispetto. Potremmo quasi dire una debolezza (tutt’altro che passiva) di cui nessuno dei due si sarebbe mai sognato di vergognarsi. Erano, viceversa, piuttosto inclini a teorizzarla. Solo qualche tempo dopo abbiamo saputo che Cohen quelle versioni italiane le aveva apprezzate enormemente, che se ne sentiva rappresentato in pieno, non solo per i testi, così liberi e pur così fedeli, ma anche per l’affinità emotiva di quelle loro due voci avvolgenti.
Io, Dori, rimpiango solo che Fabrizio non abbia mai saputo con quanta commozione lo celebrò Cohen subito dopo la sua morte, nel 1999, al microfono di una radio canadese, dedicandogli un intero programma. La stessa commozione che mi ha riservato quando l’ho incontrato, a Milano, per l’uscita del suo “Ten new songs“. Fu allora che mi mandò un indimenticabile messaggio di suo pugno sul web.
E fu allora che mi annunciò che voleva restituire l’omaggio a Fabrizio cantando brani suoi. Mi chiese di mandargli una rosa di pezzi, dicendo: “La conosci, no, la mia voce? Sceglimi cose che possa cantare… “Per certi guai con la sua agente, quei pezzi non gli arrivarono mai. Uno dei tanti miracoli mancati, che si perdono nei corridoi della storia. Eppure, nell’ultimo concerto che tenne all’Arena di Verona, Cohen dedicò “Suzanne“ a Fabrizio.
Le linee parallele percorse dai grandi poeti a volte si incontrano. Forse perché Leonard Cohen, come Fabrizio De André, era nato nel futuro, fuori dal suo tempo biologico. A rendere “speciali” le canzoni di Cohen c’è forse solo lo stesso elemento imponderabile, la capacità di dare emozioni, di trasmettere idee e sentimenti che ti appartengono ma non sapevi di avere. Non basta essere bravi. A rendere “speciale” Cohen era anche quella pignoleria maniacale in concerto che “affliggeva” del pari De André e che poi significa solo uno smisurato rispetto per il tuo pubblico.
Cosa ci risuona oggi in testa, mentre pensiamo che Cohen di roba brutta, o anche mediocre, non ne ha proprio mai scritta? “Hallelujah“, per forza. La sua galleria femminile, per forza. Ma lasciamo che il cuore torni a batterci forte con quei piccoli, sommessi miracoli che sono “A thousand kisses deep” e “Dance me to the end of love”. Lasciamoceli scorrere dentro. Le ha scritte perché, senza saperlo, ne abbiamo sempre avuto bisogno.