Che cosa cambierà con l’elezione di Trump? Si chiude Le Monde. “Trump smonta l’era Obama” è la prima risposta, sommaria, di Repubblica. Eppure Obama, sottolinea il Corriere, gli tende la mano: “Ora collaboriamo”. Ma nelle città migliaia di americani urlano “Non è il nostro presidente” e qui da noi la Stampa titola “Il giorno delle due Americhe”. Prima di provare a rispondere alla domanda del Monde, cioè di avventurarmi in un esercizio necessario, quanto rischioso, quello delle previsioni, permettetemi di aggiungere al Caffè di ieri ancora tre brevi constatazioni sul voto dell’8 novembre. La prima: Hillary Clinton e i democratici hanno ottenuto circa 200mila voti in più ma, come già era successo nel 2000 a Gore contro Bush, hanno perso nella maggioranza degli Stati e in ciascuno Stato chi vince prende tutto. Un baco nella democrazia prodotto dal sistema maggioritario? Diciamo, per onestà, che in America è vero solo in parte, perché si tratta di un sistema federale e quindi ha persino senso che il numero degli Stati conti un po’ più del numero dei votanti nella scelta del Presidente. La seconda constatazione riguarda il voto nelle città: in tutte quelle – e sono tante – con più di un milione di abitanti, Trump ha perso. America divisa? Sì, America divisa. Noi possiamo constatare, in modo autocritico, di aver espulso la sofferenza e il disagio dalle città, con il risultato di isolarci. Per Trump il problema è: come governare contro le città? Terza notazione: Andrea Montanino, nel pezzo che apre la Stampa, scrive che “se nel 2007 il valore della ricchezza posseduta da una tipica famiglia del ceto medio era circa 160 mila dollari (ndr lordi), dopo sei anni questo valore è scivolato a 98 mila dollari. Il ceto medio ha sì mantenuto o ritrovato un lavoro, ma è più povero”. Perché questa evidenza è stata fin qui nascosta?
I disastri che Trump farà. Nominerà un conservatore, anzi un reazionario, alla Suprema Corte, in sostituzione di Anthony Scalia. Ma è possibile che abbia l’opportunità di nominarne un secondo e un terzo, perché due dei giudici attuali, considerati “progressisti”, hanno più di 80 anni. La nuova Corte manterrà la pena di morte, potrebbe smantellare il diritto delle donne alla interruzione di gravidanza, non credo che fermerà i matrimoni omosessuali, ma bloccherà l’estensione dei diritti per le persone. È la prima sconfitta di Obama, che aveva provato a sostituire lui Scalia, ma è stato bloccato dalla maggioranza repubblicana del Congresso. Secondo disastro: gli accordi mondiali per la riduzione dell’emissioni di gas a effetto serra. Trump si è impegnato a sostenere l’industria del carbone, non sono sicuro che lo farà, ma certo metterà molta acqua nel vino dell’accordo di Parigi, per esempio chiedendo alla Cina e all’India di fare di più, per fare di meno noi occidentali. Pessimo. Il terzo disastro riguarda la sanità. Il Presidente eletto deve smantellare l’Obama Care. Lo ha promesso, glielo chiedono le case farmaceutiche e gli operatori privati che non tollerano l’intervento dello Stato, sia pure per garantire uno straccio di copertura sanitaria universale. Per la verità Trump ha detto “sostituirò Obama Care con qualcosa di migliore”. Migliore per chi?
Non dimenticheremo nessuno, è la promessa del nuovo Presidente. La questione economica, innanzitutto. Imporrà dazi ai prodotti americani, bloccherà il libero commercio? E quello che temono i neo liberisti, che da qualche anno si trovano più numerosi nelle file della Terza Via post socialista che in quelle dei conservatori. Non credo che avremo un ritorno in grande stile del protezionismo, solo la rinegoziazione di taluni accordi fatti troppo sotto dettatura delle multinazionali. Credo abbia ragione Romani Prodi che dice alla Stampa: “Sì, Trump contribuirà ad accentuare il tramonto, che però è già in atto della globalizzazione: l’epoca dei grandi accordi commerciali era già finita e andiamo incontro ad accordi particolari, settoriali”. Insomma Trump si muove sulla scia di qualcosa che era ormai inevitabile e che solo gli zeloti (ortodossi e integralisti) renziani non vedevano. Ma allora che farà Trump per il ceto medio impoverito? Qui la sorpresa, per chi legge solo i giornali italiani: Trump ha promesso investimenti pubblici e milioni di posti di lavoro per rifare le infrastrutture. Come Roosevelt con il suo New Deal, come il generale Eisenhower, repubblicano e Presidente dal 1953 al 1961, cui si deve la rete autostradale degli Stati Uniti. È una buona cosa? Sì, lo è. Solo che le infrastrutture tradizionali costano tanto e questo autorizza più di un dubbio. Se mantenesse le promesse, scrive il Sole24Ore, il “conto del piano crescita” ammonterebbe a “7mila miliardi”, la metà dell’attuale debito americano.
Dialogo con la Russia, isolazionismo? Trump, almeno all’inizio, non potrà fare la faccia feroce – promessa invece dalla Clinton – con il Cremlino. E in Siria non potrà premiare l’alleanza con l’Arabia Saudita piuttosto che combattere, anche in modo rude, il Daesh. Naturalmente Pentagono e Dipartimento di Stato proveranno a condizionarlo, perché l’alleanza con i sauditi e l’ostilità per la Russia sono scritti nel DNA dell’amministrazione statunitense. Ma non c’è dubbio che sulla politica estera si apre una bella partita. Perché, come ricorda ancora Prodi, “Una cosa è certa: Ucraina e Siria vivono e vivranno soltanto se c’è un accordo tra Russia e Stati Uniti”. Per l’Europa, se esistesse – vero Mogherini, vero Gentiloni? – sarebbe venuto il tempo di interpretare il ruolo del paciere. Quanto alla Cina, non so: è possibile che Trump gli lasci più campo in Asia mentre cerca di frenare le importazioni di merci cinesi a basso costo. Ed è possibile che al potere cinese, che sta cercando di frenare – con prudenza, s’intende – la crescita, per curare gli squilibri più rovinosi, non dispiaccia ballare il valzer con questo super reazionario yankee. Come accadde, d’altronde, con Nixon.
Noi vogliamo la lotta alle disuguaglianze, dice papa Bergoglio intervistato da Scalfari. Questo è il modo giusto di confrontarsi con la realtà nuova, segnata da un voto popolare che proietta alla Casa Bianca un impresentabile – Ku Klux Trump, titola il manifesto – ma che apre gli occhi a una sinistra ormai adusa a raccontare e a raccontarsi fole (favole fantasiose, menzogne). Sanders dice cose analoghe e invita i democratici a rendere permanente la mobilitazione e, ovviamente, ad andare a cercare il proletariato deluso e tradito. I democratici in gran subbuglio, potrebbero rivolgersi alla Warren, come leader. Vedremo. Ma il Papa chiede anche di “abbattere i muri che dividono” e “costruire ponti”. E il muro col Messico, e i fulmini promessi da Trump contro i musulmani di nazionalità americana? C’è spazio per la lotta, in America e anche qui da noi. Trump ha già tolto dal suo programma online le frasi più sconce sull’Islam. Il muro potrebbe risolversi in un accordo con il Messico per combattere meglio il traffico dei migranti, il quale però è legato al traffico della droga e ai guasti del proibizionismo. Una partita tutta da giocare, anche questa.
Le Pen, Orban e Salvini esultano. Facciano pure. Forse il trionfo di Trump li sdogana – qualora avessero ancora bisogno di essere sdoganati – ma non è affatto certo che gli porti voti. Alla fine l’unico che può gonfiarsi il petto è Beppe Grillo. È lui che, come Trump, ha denunciato la grande menzogna diffusa da una sinistra e da una destra, da tempo ridotte al ruolo del dorma (portiere) nel palazzo dell’establishment e della finanza. Naturalmente per una sinistra vera, quella di Sanders, di Iglesias, di Corbyn si aprirebbero praterie da percorrere. Se la si smettesse con il “politicamente corretto”, con il nuovismo già vecchio e sepolto in America, con i buoni sentimenti e i valori gridati solo per difendere il proprio status. E si mettesse a fare politica, uscendo dal guscio, o dalla bolla che sia.