Mentre cammino accanto al fiume di persone che scorre per via Cavour a Roma, incontro un’amica che non vedo da un po’ e che, venendomi incontro con il volto sorridente, mi dice: “Quanto tempo lo abbiamo pensato? quante volte abbiamo desiderato di vedere in piazza tante donne come oggi? Tutte quelle riunioni, tutte le cose scritte, tutte le nottate fatte, e guarda oggi, guarda quante persone in piazza abbiamo portato. Oggi noi donne abbiamo vinto, dovranno farsene una ragione”. È vero, ieri quella che ha attraversato Roma è stata un’onda che in un pomeriggio d’autunno ha travolto le strade. Il giorno dopo la Giornata internazionale contro la violenza maschile, l’Italia ha detto no a questa violenza e sì al diritto di ogni donna a vivere libera dal femminicidio.
Una data che rimarrà storica, quella del 26 novembre, in cui nella Capitale il gruppo di donne dietro lo striscione “Non una di meno”, che ormai conta migliaia di adesioni, sono state seguite da 250 mila persone provenienti da ogni parte del Paese per sfilare da piazza Esedra e San Giovanni in un corteo fatto da tutt*: maschi, femmine, bambini, bambine, studenti e studentesse, persone di ogni età, e ognuna portatrice di una realtà diversa. Un’onda colorata, danzante, pacifica e aperta a tutt*, che ha avuto il coraggio di rendere visibile la propria forza senza gridare. Nessuna bandiera di partito, nessuna istituzione, solo un unico grande fiume: donne che ogni giorno combattono sul campo come guerriere in prima linea, donne che ci rimettono i soldi, la vita, gli spazi privati, perché sono convinte che quello che stanno facendo è giusto e va fatto malgrado, o proprio a causa, delle inefficienze dello Stato e di fronte a istituzioni che continuano a pronunciare promesse senza seguito, a fare patti non rispettati, a pronunciare parole che poi cadono inesorabilmente nel vuoto, in un Paese famoso per le sue buone norme mai pienamente applicate.
L’Italia oggi si sveglia così, con centinaia di migliaia di essere umani che finalmente sono scesi in piazza per rivendicare diritti negati: donne, uomini, bambini e bambine, ma anche trans, lesbiche, gay, diversamente abili accanto a quelle donne che a partire dalla rivendicazione di un contrasto reale alla violenza maschile, sono riuscite a far diventare quella piazza, la piazza dei diritti, quelli mai rispettati o addirittura violati, quelli che fanno capire il grado di civiltà di un Paese.
“Non siamo più disposte a perdere in alcuna parte del mondo nessuna donna per mano di un uomo o a causa dell’obiezione di coscienza o per qualsiasi altra forma di violenza”, dice Tatiana Montella della rete Io Decido, uno dei gruppi promotori di Non una di meno insieme a Udi (Unione donne in Italia) e D.i.Re (Rete dei centri antiviolenza). In piazza ci sono centri antiviolenza e associazioni sparse per tutto il territorio nazionale: da Firenze, Lecce, Brindisi, Terni, dalla Sicilia al Piemonte, insieme alle donne ucraine che ballano l’hopak, le musulmane che cantano, e sopratutto tantissimi uomini che ritengono che il patriarcato non solo non sia morto ma che sia qualcosa che riguarda anche loro. Gli slogan sono nuovi e vecchi: da “Come mai noi non decidiamo mai, d’ora in poi decidiamo solo noi” a “Insieme siamo venute, insieme torneremo, Non una di meno, non una di meno”. Una piazza che viene dal basso, ordinata e spedita anche grazie a un’organizzazione eccellente – che ha ricevuto i complimenti dalla stessa questura – colorata e danzante ma con le idee chiare.
Sui cartelli scritte che inneggiano alla libertà dei corpi, alla piena applicazione della 194 contro l’obiezione di coscienza, la fine della precarizzazione del lavoro e contro le molestie, ma soprattutto si chiede uno stop definitivo al femminicidio con le foto delle donne uccise dall’inizio dell’anno attaccate a un cartellone. “Oggi si parla di una donna uccisa ogni 3 giorni – dice Vittoria Tola dell’Udi – ma in realtà non sappiamo cosa succede veramente riguardo la violenza sulle donne. Non abbiamo dati dei pronto soccorso, delle forze dell’ordine, i dati sui processi e sulle condanne, quelli dei servizi territoriali, dalle assistenti sociali e dei comuni. Abbiamo solo i dati, non completi, dei centri antiviolenza, e due indagini Istat in quasi 10 anni”.
Quello che manca è in definitiva non solo i soldi – su cui è giallo dato che il governo dice sempre che sono stati stanziati mentre alcuni centri muoiono di fame e chiudono per mancanza di fondi – ma un piano coerente che contrasti una volta per tutte la violenza maschile contro le donne con piena applicazione delle norme esistenti – prima fra tutte l’implementazione della Convenzione di Istanbul (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica) – e non solo riguardo il femminicidio ma anche riguardo altri diritti tra cui l’applicazione della 194: un piano che comporta un serio lavoro su una trasformazione culturale molto citata nei discorsi ma mai effettivamente pianificata con strumenti adatti.
Due giorni fa è stato presentato lo spot della Rai per la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, che ricorreva il 25 novembre, in cui vengono intervistati bambini e bambine che dicono davanti a una telecamera: Io voglio fare la veterinaria, la stilista, il musicista, e poi a un certo punto una bambina dice “Quando sarò grande finirò in ospedale perché mio marito mi picchia”. Un messaggio in cui la televisione di Stato dà per scontato che nella vita di una donna debba in ogni modo essere compresa la violenza, più o meno in linea con quello che in “Transforming a Rape Culture”, Emilie Buchwald, Pamela R. Fletcher e Martha Roth definiscono come “cultura dello stupro”, ovvero “Una cultura che condona come normale il terrorismo fisico ed emotivo contro donne” e in cui “sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sia un fatto della vita, inevitabile come la morte o le tasse”. Spot la cui rimozione immediata è stata chiesta dai comitati delle pari opportunità della Federazione nazionale della stampa italiana (FNSI), dell’Usigrai e della stessa Rai, dalla società civile, come il gruppo “Rebel Rebel” che ha lanciato una petizione online, e naturalmente da “Non una di meno” che ha scritto una lettera aperta alla presidente della Rai, Monica Maggioni, per far ritirare lo spot.
Da quando nel 2006 l’informazione identificava con lo “stupratore tipo” l’immigrato rumeno, malgrado l’Istat ci dicesse che l’80% della violenza maschile sulle donne era agito da partner o ex e quindi maschi adulti bianchi, le cose sono cambiate ma non abbastanza.
La presentazione nel 2011 del Rapporto ombra alle Nazioni Unite fatto dalle associazioni sulla non completa applicazione della Cedaw (Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna) in Italia, la successiva mobilitazione delle donne il 13 febbraio dopo 20 lunghi anni di Berlusconi (con tutto quello che quel periodo ha comportato nell’esasperare l’oggettivizzazione del corpo femminile), le Raccomandazioni delle Nazioni Unite riguardo la necessità di una trasformazione culturale del nostro Paese – sia per porre fine alla discriminazione delle donne sia per contrastare la violenza maschile in maniera sistematica – e soprattutto la ratifica della Convenzione di Istanbul passata sotto la pressione della società civile, hanno contribuito a un cambiamento reale che in questi ultimi dieci anni ha fatto diventare il femminicidio una parola di uso comune e la violenza come un problema di tutt*, creando una consapevolezza che prima non c’era.
Un lavoro a 360 gradi fatto dalle donne e dall’associazionismo in cui tutte hanno lavorato nei propri spazi di azione – a lavoro, in ambito privato, o nelle diverse forme di attivismo e professioni – e che hanno fatto fare grandi passi in avanti a tutta la società, e questo in un contesto in cui le istituzioni hanno a volte accolto le richieste (facendone anche battaglie personali nei casi più felici), ritardando però troppo spesso gli interventi, o addirittura ostacolando il cambiamento, e questo sotto gli occhi di tutt*. Un equilibrio ormai traballante che finalmente si è rotto con la manifestazione di ieri che è il prodotto sia di questo instancabile lavoro delle donne nei vari ambiti – proseguito in diversi segmenti e accelerato in questi ultimi anni proprio sul tema della violenza maschile – sia dall’aver saputo, a un certo punto, mettere da parte le differenze per unirsi su obiettivi comuni, seppur faticosamente.
Alla vigilia del 25 novembre, Elizabeth Huayita di 29 anni, è stata uccisa dal compagno, Vittorio Fernando Vincenzi, davanti ai bambini a Seveso in una dinamica molto comune: una storia finita dove l’idea di perdere il possesso della donna con cui conviveva ha portato l’uomo a uccidere la compagna, mentre lei, che non si era mai rivolta a un centro antiviolenza, probabilmente non aveva chiara la valutazione del rischio che stava correndo. E questo accadeva mentre l’Eures ci diceva che le donne uccise con movente di genere in Italia quest’anno sono 116 e che la maggior parte dei femmicidi avviene in relazioni intime, perché malgrado sia vero che la violenza sulle donne in Italia sia in calo, esiste sempre lo zoccolo duro della violenza domestica e degli stupri: una violenza che in generale è diventata più crudele, più efferata, dove le donne che denunciano sono in aumento ma non sono ancora abbastanza (solo il 36%).
Ma perché le donne non denunciano?
Perché le donne in Italia non si sentono protette, perché se una donna decide di denunciare e poi sente dire che se l’è cercata, o addirittura non è creduta, e quindi non viene protetta perché la stessa istituzione che dovrebbe proteggerla sottovaluta il rischio e non applica le norme che comunque si dovrebbero-potrebbero applicare per evitare che venga colpita di nuovo, rivittimizzata o uccisa, quella donna continuerà a prendere le botte a casa, dato che potrebbe anche perdere i figli. Una settimana fa un giudice che si è visto davanti una donna massacrata ha scarcerato e non ha ordinato l’allontanamento del partner perché anche lui aveva dei lividi, dato che lei aveva osato difendersi, e quindi ha deciso che non era violenza ma i due avevano litigato e anche lei gliele aveva suonate. Oltre alla vittimizzazione secondaria, che induce la donne a non denunciare, c’è poi la scarsa valutazione del rischio che viene sempre imputata alla donna che vive una violenza – ma come faceva lei a stare con uno così? – senza considerare che sono proprio le istituzioni a non riconoscerla – aveva denunciato tre volte ma è stata uccisa.
In Italia può accadere che le donne perdano l’affidamento dei propri figli perché dopo aver denunciato una violenza del partner si possono ritrovare in un Tribunale ordinario o dei minori che non considerando la situazione come violenza ma conflitto, valutino i genitori sullo stesso piano e interpretino lo stato della donna, che magari subisce violenza da anni in casa, come instabile da psicologi che relazioneranno in una Ctu che codesta madre non è affidabile, anzi malevola.
Al di là delle promesse delle istituzioni, in Italia le donne, i bambini e le bambine che vivono la violenza maschile sono in un mare di guai: un mondo in cui entri e non sai né come né quando potrai uscire e dove se incontri la persona giusta, hai delle possibilità, altrimenti no. Quindi sia nel contrasto che nella prevenzione, malgrado i passi avanti fatti con grande fatica, le mancanze sono ancora enormi: nei tribunali, nelle forze dell’ordine, nei pronto soccorso, nell’ancora esiguo numero dei rifugi e dei centri antiviolenza che vivono con fatica, nell’ascolto, nell’accoglienza, nella rilevazione dei dati, nella scuola, nella narrazione del fenomeno e quindi nella trasformazione culturale – che è un nodo fondamentale della prevenzione. E questo in un ambito di diritti fondamentali come quello di vivere una vita fuori dalla violenza.
Ed è davanti a tutto questo che le donne hanno deciso non solo di manifestare la propria presenza, forse considerata finora troppo sotterranea, ma anche di scrivere un Piano antiviolenza femminista, grazie a un sapere che, sebbene non riconosciuto né preso in considerazione da chi governa, è più che prezioso perché accumulato in anni di lavoro sul campo.
Un percorso di scrittura di un Piano femminista contro la violenza che inizia oggi a Roma alla Facoltà di Psicologia, e che arriva dopo che, malgrado le richieste, nessuno si è mai immaginato di valutare l’esito del primo Piano antiviolenza della ex ministra Carfagna, e dopo l’ennesima brutta figura del governo con il Piano antiviolenza straordinario (come se la violenza che è strutturale avesse bisogno di un piano d’emergenza e in cui si è fatto finta di chiamare ai tavoli una parte delle associazioni), rimesso poi subito nel cassetto per la vergogna.
Ora che le donne sono scese in piazza, dove è stata dimostrata una forza eccezionale nel richiamare centinaia di migliaia di persone alla protesta su diritti sempre più corrosi, si incontreranno in otto tavoli: dal piano giuridico, alla salute, scuola, narrazione, fino al sessismo, lavoro, migranti e ai percorsi di fuoriuscita dalla violenza. In particolare su alcuni tavoli è interessante notare come già dalle prime indicazioni sia chiaro quale sia la strada da fare e quali sono le disfunzioni su cui lavorare. Per il piano legislativo, ad esempio, si legge che “l’effettività del quadro legislativo esistente è compromessa dall’assenza di specializzazione di tutti gli operatori coinvolti, dalla mancanza di coordinamento tra il sistema penale, civile e minorile e dalla non tempestività della risposta delle istituzioni”, e che “i principi della Convezione di Istanbul, si scontrano, nella pratica, in ambito penale, con la mancata applicazione delle misure cautelari, l’inadeguatezza della tutela processuale delle vittime/testimoni; lo scarso riconoscimento degli strumenti risarcitori; in ambito civile, con provvedimenti in materia di affidamento dei figli minorenni che non tengono conto della violenza assistita e di misure volte a garantire la sicurezza dei minori nell’esercizio del diritto di visita”: un quadro che già di per sé, in queste 5 righe, dovrebbe mettere in allarme qualunque ministro della giustizia. Per il lavoro al tavolo si parlerà “di 1 milione 224mila donne tra i 15 e i 65 anni che hanno subito molestie o ricatti sessuali (…), pari all’8,5% delle lavoratrici attuali o passate”, mentre per la salute riproduttiva si affronterà la violenza “prima, durante e dopo il parto”, e un’obiezione di coscienza che “ormai ha quasi svuotato di senso la legge 194, sia per quanto riguarda il diritto all’aborto sia per la contraccezione di emergenza”, e che con la morte di Valentina Milluzzo ci fa capire come in Italia oggi il femminicidio non solo non sia adeguatamente contrastato all’interno delle relazioni intime, ma stia ormai entrando a pieno titolo anche negli ospedali.