Vista dall’alto del finestrino dell’aereo Istanbul è sempre la stessa, bella ed immutata, ma è la mia visione ad essere più chiara, non solo perché ha smesso di essere offuscata dalle lacrime che mi bagnavano il viso quando ho deciso di tornare in Italia. Sono riuscita a prendere distacco. Lì per lì non lo sento quando stiamo per atterrare e l’emozione è tale che vorrei che qualcuno mi stringesse la mano, mi manca il fiato.
Ben presto noto i cambiamenti, quei piccoli grandi dettagli di cui non volevo essere testimone e che fanno della Turchia il posto dove non voglio più essere, e come me molti altri expat. Non ho numeri alla mano, se non quelli dei turisti che non la scelgono più come meta per le loro vacanze, (-40% in Giugno, dati del Ministero del Turismo turco) ma la percezione è tangibile, come mi conferma anche la responsabile del centro rifugiati a cui prestavo aiuto e che adesso si trova sempre più in difficoltà a reperire volontari.
Le pubblicità all’interno della metropolitana sono state sostituite da slogan propagandistici a favore della “democrazia”. Sono passati quattro mesi, quattro mesi di stato d’emergenza e sospensione della carta dei diritti fondamentali. Frasi come: “Hakimiyet milletindir” ovvero “La sovranità appartiene alla nazione” campeggiano ovunque sui palazzi della megalopoli e sull’Atatürk Kültür Merkezi di piazza Taksim che storicamente funge da sorta di bacheca durante le proteste politiche, lo stesso da cui lo scorso 15 luglio vennero calate le bandiere col volto del presidente Erdoğan e gli striscioni, violentissimi, contro Fetullah Gülen, presunto artefice del tentato colpo di stato.
Il palazzo della cultura intitolato al padre della patria, chiuso dal 2008, sarà ufficialmente abbattuto secondo un progetto ufficializzato nel 2013 per fare spazio al nuovo teatro dell’Opera e, probabilmente, una moschea. Lungi da me passare per una nostalgica conservatrice, ma siamo a pochi passi dal celeberrimo parco Gezi, e l’impresa non è una novità per una politica che ha investito tutto sulla forza delle infrastrutture e del cemento.
Alla prima passeggiata su Istiklal caddesi scorgo subito nuovi edifici, negozi ed attrazioni, fra cui un secondo punto vendita Hard Rock Café e il Madame Tussaud Istanbul, installato al posto di uno dei primi cinema del distretto di Beyoğlu, l’Emek sineması. Me lo conferma un amico che incontro per un caffè in quella perla nascosta che è l’Alman Kültür kitabevi. Siamo riusciti a dirci come, dove e quando incontrarci quasi per miracolo: è bastata una notte di sonno per risvegliarsi con l’ennesimo blocco dei social media, che stavolta ha coinvolto perfino Whatsapp, e la notizia, agghiacciante, dell’arresto dei parlamentari del partito curdo HDP (Partito democratico dei popoli) fra cui Selahattin Demirtaş, avvocato, attivista per i diritti umani e fondatore di Amnesty International Diyarbakir, la più grande città turca a maggioranza curda che ad oggi manca di amministrazione dopo l’arresto dei suoi due sindaci.
L’accusa di questi mesi di purghe è fondamentalmente una uguale per tutti: terrorismo, per cui si intende affiliazione al PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) piuttosto che puro e semplice dissentire dal pensiero imposto. Due giorni prima che partissi, la Farnesina mi aveva informata via sms della decisione del consolato americano di rimpatriare i parenti dei consoli. Ho fatto 2+2. Solo una settimana prima, anche il nuovo direttore di Cumhuriyet (che ha sostituito Can Dundar, attualmente in esilio in Germania), unico quotidiano di opposizione presente sulla stampa turca al momento, è stato arrestato assieme ad altri 8 giornalisti.
Insomma, capisco che anche oggi non è uno di quei giorni in cui puoi parlare del più e del meno, e mi chiedo se ne abbiano mai avuti qui da quando sono andata via. Resta ancora personale la decisione di agire come se nulla fosse in base alla propria sensibilità o al coinvolgimento diretto con le vicende, ma meno di prima. E mentre il mio amico nomina “Tayyip” a voce alta, accompagnandolo a commenti tutt’altro che positivi, mi accorgo che a due tavoli da noi ci sono due poliziotti. Prendono il caffè, se la ridono, anzi, sono sempre al cellulare e sono certa che non capiscano una parola di inglese né che stiano prestando attenzione a ciò che diciamo, ma per la prima volta in vita mia ho quella sensazione lì, il terrore che se ci sentono passeremo i guai.
Il mio amico mi regala la valigia vuota che una conoscente, anche lei tornata al suo paese, ha lasciato nella speranza che qualche altro straniero in fuga potesse beneficiarne. Ben presto mi accorgo di essermi fidata ciecamente di una persona che conosco poco, che troppe mani erano passate da quell’oggetto, e se ci fosse qualcosa nascosto nella fodera? Non l’avevo neppure aperta per controllare che fosse effettivamente vuota. Giuro di non essere una persona ansiosa né tanto meno diffidente, perciò le mie reazioni a quelle che avrei solo considerato come gentilezze, mi hanno spaventata molto più della polizia che cresceva, ai metal detector ormai fissi ad ogni entrata della metropolitana, in attesa del verdetto dell’interrogatorio a Demirtaş e il conseguente rischio di manifestazioni, come di consueto represse nei gas lacrimogeni.
Sono gli anni di piombo della Turchia, e quel peso te lo senti tutto addosso. Cerchi di scrollartelo quando il sabato sera si canta e si beve come e più di sempre nei club di Karaköy dove il clima ancora clemente concede di scatenarsi nelle danze all’aperto, per strada, a suon di musica anni ’90 con evergreen turchi ed internazionali. Sei parte di un tutto e pensi di essere in un paese ancora libero, dai, dove si sta bene, se non fosse che la tensione è innegabile, che a volte l’aria si taglia col coltello non solo nelle mattine di nebbia tipiche degli autunni istanbulioti sul Bosforo pregni dell’hüzün di Orhan Pamuk, la nostalgia tetra, la dipendenza da questa città che addolcisci col bal-kaymak (miele e formaggio) di una colazione alla turca. E la notte è ancora quel momento in cui tutto può accadere, le prime luci dell’alba quelle in cui una donna può urlare dal balcone solo per dire a suo figlio che va verso scuola che si è dimenticato la merenda, o comunicare alla vicina di casa che c’è il “darbe”, il colpo di stato. I miei deja-vu restano, prepotenti, e in Italia stavolta mi porto tanti souvenir e poche speranze che la situazione possa migliorare in breve tempo. Istanbul sopravviverà stoicamente e storicamente a questo ed altro, ma come a nessuno è dato saperlo.