La globalizzazione sbagliata e le sue conseguenze

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Sono sorpreso per ciò che è accaduto oltreoceano? Onestamente, no. No, perché, avendo seguito con particolare attenzione questa lunga e straziante campagna elettorale, senz’altro la peggiore degli ultimi trent’anni, era evidente che le viscere dell’America profonda fossero scoperte e che masticassero un odio, una violenza e un feroce desiderio di vendetta che ha trovato nelle urne il proprio apogeo.
Cosa ci dice, dunque, questa vittoria di Donald Trump, contro ogni pronostico e contro tutte le dotte analisi di sondaggisti, commentatori, grandi gruppi editoriali e industriali, mondo bancario e finanziario e l’establishment variamente assortito al gran completo? Ci dice, al netto di ogni semplificazione, che tutti i suddetti personaggi, nessuno escluso, non hanno capito nulla di ciò che si sta verificando oltre i confini del loro bunker dorato. E ci dice anche che l’ultimo trentennio, nel quale la sinistra si è resa responsabile dei principali atti di barbarie, a cominciare dall’abolizione del Glass-Steagall Act di Roosevelt firmata nel ’99 da Bill Clinton per consentire agli “spiriti animali” del capitalismo più deteriore, gli stessi che hanno condotto l’Occidente nel baratro di una crisi devastante dalla quale non si è ancora ripreso, di fare il bello e il cattivo tempo, quelle stesse furie a lungo dominanti, dopo la catastrofe del 2007-2008, battono ormai in ritirata, vittime dell’esplosione della bolla tossica che esse stesse avevano contribuito a far gonfiare.
Sarebbe, infatti, ingeneroso scagliarsi ora contro la sola Hillary Clinton: una povera donna allo sbando totale, mandata allo sbaraglio da un partito che era, a sua volta, nel marasma più assoluto, incapace di cogliere la novità costituita da Bernie Saunders e, soprattutto, dai milioni di giovani, di ultimi, di precari, di esclusi e di esponenti di quel ceto impoverito che per disperazione non ha votato o si è gettato su Trump e che, invece, durante le primarie, aveva puntato su questo anziano socialista del Vermont che era riuscito nell’impresa di riaccendere una fiammella di speranza in un Paese annientato dalla propria precarietà esistenziale.

E così, se il 9 novembre del 1989 ha rappresentato il collasso dell’Unione Sovietica, non c’è dubbio che il 9 novembre del 2016 abbia segnato la conclusione definitiva del “Secolo americano” o, per meglio dire, l’abbia esplicitata.
Perché il “Secolo americano”, in realtà, si era concluso già da almeno quindici anni: con le Torri Gemelle e l’inizio dell’età dell’incertezza, della tragedia che bussa alla porta di casa propria e della follia e della psicosi collettiva, con le guerre unilaterali di Bush e con l’esplosione di una crisi che non è stata solo economica bensì epocale, in quanto ha rappresentato il collasso di una visione ormai sconfitta e priva di prospettive, di speranze, di ambizioni, travolta da una realtà che si è assunta il compito di porre fine a tutte le nostre certezze di cartapesta e di spalancare davanti a noi uno scenario d’inferno cui non siamo stati ancora in grado di prendere le adeguate contromisure.
Ci troviamo, infatti, in una fase storica pericolosissima, sospesi a metà fra il non più di un Novecento con troppa storia e troppe ideologie sulle spalle e il non ancora di un presente senza storia, senza ideologie, senza punti di riferimento e senza più alcuna forza di immaginare un domani diverso e altro rispetto a quello che era stato apparecchiato per noi dai potenti cultori di un modello sociale, quello liberista e basato sul capitalismo sfrenato, rivelatosi nel corso del tempo una piovra ingannatrice e capace di trascinare a fondo con sé anche coloro che l’avevano sostenuta per ingenuità o per mero provincialismo,
Ha perso la Clinton perché, povera crista, non poteva vincere: non poteva vincere la candidata di Goldman Sachs e di quella stessa intellighenzia arrogante e presuntuosa che aveva già intonato il “de profundis” nei confronti dell’impresentabile Trump, salvo dover poi fare i conti con le viscere scoperte di cui abbiamo parlato all’inizio, in un Paese stanco e incredulo, arrabbiato con la cultura e la saggezza del multilateralista Obama, reo di avere una visione anti-imperialista e un progetto politico imperniato sul riconoscimento della complessità del nuovo mondo, di questo ordine globale policentrico in cui non può più esistere il concetto di governo forte, essendo ormai anacronistico, così come non può più esistere l’assurdità della nazione egemone, del gendarme del pianeta, del destino manifesto, della luce del bene che impronta di sé gli altri paesi e combatte le tenebre del male e altre amenità da consegnare quanto prima ai libri di storia e non rispolverare mai più.

E ha perso, inequivocabilmente, la nostra, triste e fragile Europa, la quale, a causa dell’annunciato isolazionismo di Trump, sarà costretta a difendersi da sola dopo settant’anni di sudditanza psicologica al pensiero unico della NATO. A pensarci bene, con un’America che pensa principalmente a se stessa e una Russia desiderosa di consolidare la propria ritrovata potenza economica e militare senza pestare i piedi a nessuno, almeno sul versante occidentale, avremmo la straordinaria e irripetibile occasione di costruire davvero un’Unione politica degna di questo nome; peccato che non ci siano, al momento, statisti all’altezza di compiere quest’impresa, che non ci sia una classe dirigente degna di questo nome, che la Francia rischi di consegnarsi, in primavera, a madame Le Pen, che persino la Germania veda in pericolo la leadership della Merkel, che la socialdemocrazia sia in ginocchio pressoché ovunque, che il PSOE si sia recentemente suicidato in Spagna, al pari del PASOK in Grecia, che la situazione italiana sia quella che tutti conosciamo, anche se abbiamo la fortuna che, male che va, ci ritroviamo con il M5S, ossia con un soggetto politico gravato da mille difetti ma non pericoloso per le sorti della democrazia, che l’unico vero statista sia Draghi e che dappertutto dilaghino gli Orbán e altri figuri della stessa natura.
Senza contare le sciocchezze che ho letto in giro a proposito di Sanders: spiace dirlo ad alcuni illustri commentatori ma il vecchio Bernie non piace perché è nuovo, perché nuovo non è affatto, così come non lo sono Corbyn o Mujica, bensì perché è sincero, autentico, credibile, in grado di leggere la realtà nella sua interezza e complessità e di porre i piedi nel fango della crisi, lontano da un’élite economico-finanziaria che ha smarrito ogni contatto con la vita quotidiana delle persone e si è trasformata nel principale nemico, nonché carnefice, delle giovani generazioni.
Perché quando stipuli accordi commerciali capestro, esalti una globalizzazione feroce e selvaggia che nulla ha a che vedere con la globalizzazione cosmopolita, multipolare e multietnica della quale avremmo, al contrario, più che mai bisogno, condanni i giovani a condizioni di precariato permanente, ti affidi a una stampa a sua volta conformista e incapace di osservare il mondo con gli occhi dei ceti sociali più fragili ed esposti alla crisi ed eleggi a tue capitali di riferimento New York (il tempio del capitalismo finanziario) e Los Angeles (il tempio dei miliardari, del divismo spocchioso e della ricchezza ostentata ai limiti dell’immoralità), quando ti comporti in questo modo non hai il diritto di lamentarti se poi chi in questo contesto di benessere escludente non si riconosce, in quanto è tenuto prepotentemente ai margini di questo regno dell’Eden, ti volta le spalle e si affida chiunque spari a palle incatenate contro questo circolo autoreferenziale e stucchevole al punto da suscitare nei propri confronti un sentimento di mal celato odio collettivo.
Infine, una considerazione legata alla mutazione genetica del GOP e dei partiti tradizionali. La verità, difatti, è che lo stesso Obama, e più che mai Sanders, era un candidato esterno rispetto al classico schema dei democratici, di cui il clan Clinton era, all’opposto, l’emblema, con il suo carico di terzaviismo e di ricette anacronistiche e improponibili. E vinse proprio per questo, sfidando un apparato contro cui anche Sanders si è scagliato con un’onestà e un coraggio fuori dal comune, ottenendo un risultato che è andato al di là delle più rosee aspettative e suscitando una passione civile forse addirittura superiore a quella messa in moto, otto anni fa, da Obama e dalla sua biografia oggettivamente rivoluzionaria.
Otto anni dopo è toccato al GOP, con la sconfessione dell’edonismo reaganiano e della cialtronaggine del “War president” e di suo fratello Jeb, costretto a ritirarsi anzitempo dalle primarie perché nessuno, in America, voleva correre il rischio di vedere un terzo Bush alla Casa Bianca.
Tutto ciò ci dice, molto semplicemente, che i partiti storici della destra e della sinistra sono all’anno zero in ogni angolo del pianeta, e anche questa è una conseguenza, forse la più evidente, della globalizzazione sregolata che entrambi hanno sostenuto, favorito e incrementato e che adesso li schiaccia sotto il peso del suo disumano e prevedibile fallimento.


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