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Hotspot: si avvii un’indagine indipendente e imparziale su testimonianze e denunce raccolte

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Il desiderio di ringraziare Articolo 21 per aver sottoscritto, con tantissimi altri, un appello in solidarietà con Amnesty International mi dà l’occasione per tornare a parlare del rapporto pubblicato  il 3 novembre sugli hotspot italiani e sulle reazioni molto dure, poco istituzionali persino da parte di chi ha ruoli istituzionali, che ha suscitato. Erroneamente, avevo immaginato che, essendo in ordine di tempo solo l’ultimo di una serie di rapporti sulle violazioni dei diritti umani negli hotspot italiani, quello di Amnesty International sarebbe passato semi-inosservato. Un errore, appunto. Perché è bastato che comparisse la parola-tabù, quella che in Italia è impronunciabile (non esiste il reato, dunque non esiste la parola) a scatenare quelle reazioni.

In Italia, ci dicono quelle reazioni, non c’è la tortura. In Italia, la polizia non tortura. Dunque, chi denuncia di essere stato torturato mente, tanto più se lo fa “in forma anonima”, e chi raccoglie quelle denunce per sollecitare un’indagine indipendente redige “dossier infanganti” pieni di “cretinaggini” e “falsità”. Il rapporto di Amnesty International è stato realizzato grazie a quattro missioni di ricerca effettuate dall’organizzazione per i diritti umani nel corso del 2016 in Italia Missioni che si sono recate nei porti, negli hotspot, nelle città di transito e, sì, anche in “ambienti mediaticamente più appetibili” (così il capo della Polizia Gabrielli ha caratterizzato i no borders), perché evidentemente a Ventimiglia come a Como c’erano molte testimonianze da raccogliere. Testimonianze rese in forma anonima da persone a noi note. Persone vulnerabili, sfiduciate e desiderose prima di tutto di lasciare l’Italia. Per questo, hanno chiesto l’anonimato.

Oltre al diniego della tortura, si risponde al rapporto di Amnesty International citando la straordinaria generosità dell’Italia. Giusto, e infatti la mette in evidenza anche il rapporto: “Le autorità italiane sono in prima linea negli sforzi per soccorrere persone lungo la pericolosa rotta del Mediterraneo”.

Quello che preoccupa non è, ovviamente, lo sforzo immenso profuso nella ricerca e nel soccorso in mare. Preoccupa quanto accade dopo, in terraferma, negli hotspot, nella fase di identificazione attraverso le impronte digitali e nella successiva verifica della necessità di protezione: procedure frettolose e sommarie, imposte dalla Commissione europea all’Italia, scrive il rapporto, individuando dunque una precisa responsabilità politica fuori dal nostro paese. Durante la registrazione delle impronte digitali, hanno raccontato 24 migranti, sono state commesse  violazioni dei diritti umani, in un paio di casi mediante l’impiego di strumenti che rilasciano scariche elettriche. Su questo punto, la reazione delle forze di polizia è stata netta: non sono in dotazione. Ma se più persone, in luoghi e tempi diversi, ne riferiscono l’uso, non sarà il caso di approfondire?

Si dice: 24 casi su 160.000 arrivi è nulla. Statisticamente sì. E infatti, nel suo rapporto, Amnesty International scrive: “Nella maggior parte dei casi il comportamento degli agenti di polizia rimane professionale e la vasta maggioranza delle impronte digitali viene presa senza incidenti”. Ma se al termine di una manifestazione di 160.000 persone, 24 dimostranti denunciassero di essere stati sottoposti a maltrattamenti e torture, non sarebbe il caso d’indagare?

Amnesty International ha chiesto esattamente questo: un’indagine indipendente e imparziale sulle testimonianze e sulle denunce raccolte. Ha anche chiesto, per essere precisi, una revisione delle procedure per determinare se un nuovo arrivato ha diritto o meno alla protezione e ha sollecitato la fine delle espulsioni verso paesi dove la situazione dei diritti umani è pessima: richieste cui nessuno ha finora risposto. “Questo non significa che ci sottraiamo al giudizio, alla verifica”: sono le parole pronunciate il 14 novembre dal capo della Polizia Gabrielli, in visita a Catania.
Il rapporto sugli hotspot è sul tavolo del ministro dell’Interno da due settimane e di altre testimonianze raccolte nel corso dell’estate egli era stato informato anche due mesi fa. Quando ci sarà quella “verifica”?


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