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Censura e guerra d’informazione, il caso ucraino

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Messa al bando di partiti, televisioni, libri. Le autorità ucraine, appellandosi al proprio diritto di limitare la propaganda di Mosca, stanno fortemente limitando la libertà d’espressione nel paese. Una rassegna

Il confine tra propaganda e informazione, cultura e condizionamento, controllo e censura, è difficile da tracciare. Tanto più in un paese come l’Ucraina che, da più di due anni, si trova a combattere una guerra ai propri confini. Una guerra che è anche mediatica. La Russia dispone di un vasto arsenale di televisioni, siti internet, giornali attraverso cui diffondere in Europa la propria visione del mondo e versione dei fatti. Questa guerra d’informazione è centrale nel conflitto ucraino, ed è parte integrante della “guerra ibrida” condotta da Mosca contro Kiev.
La chiusura di emittenti e testate russe operanti in Ucraina, o l’oscuramento delle loro frequenze trasmesse dall’estero, diventa per Kiev uno strumento di difesa nei confronti della propaganda di Mosca. Tuttavia la sistematicità della censura, e la sua applicazione in ambiti non strettamente collegati all’informazione, solleva più d’una perplessità e diventa lecito chiedersi quanto il concetto di autodifesa possa condurre – consapevolmente o meno – a limitazioni della libertà di espressione.

All’inizio fu la (finta) persecuzione linguistica

All’indomani della fuga di Yanukovich e dell’insediamento del governo ad interim, il parlamento ucraino propose una legge per l’abolizione della parità linguistica del russo. Il disegno di legge, proposto il 23 febbraio dal deputato Vyacheslav Kyrylenko, e votato dal 86% del parlamento – quindi anche dai partiti filorussi – non fu mai ratificato dall’allora presidente Turčynov, ma fu sufficiente a innescare una grande operazione di disinformazione da parte di Mosca. Il 18 marzo del 2014 il presidente russo, Vladimir Putin, dichiarò che “dopo il colpo di stato di Kiev, i neonazisti e russofobi al potere” avevano “cominciato a fare dei pogrom contro i russi”. Attraverso la propria rete di network – che afferisce a Rossiya Segodnya – il Cremlino poté diffondere il messaggio che i russofoni di Ucraina erano in pericolo, minacciati da un governo nazista, e che era quindi necessario reagire. La reazione fu l’occupazione della Crimea, descritta come un intervento umanitario a salvaguardia della locale popolazione russa. Una narrazione ancora oggi solidissima, ritenuta veritiera da molti cittadini europei anche a causa dell’influenza esercitata dal Cremlino su alcuni giornali dell’Europa occidentale. Si ebbe così il primo, muscolare, esempio di infowar durante la crisi ucraina.

La messa al bando del partito comunista

Il governo di Kiev ha quindi cominciato a vietare e censurare attività e persone ritenute vicine al nemico. Il partito comunista ucraino, tradizionalmente orientato verso Mosca, e sostenitore delle politiche repressive di Yanukovich, espresse il proprio supporto nei confronti dei separatisti del Donbass. Accusato di “tradimento” dal governo, fu messo al bando a seguito di una legge di “decomunistizzazione” che, nel dicembre 2015, equiparò comunismo e nazismo, vietandoli entrambi.
La propaganda del Cremlino trovò nuovo vigore, questa volta recuperando i valori dell’antifascismo sovietico, e cominciò una nuova campagna mediatica contro la “nazista” Kiev. Tuttavia quel bando divenne un pericoloso precedente. John Dalhuisen, direttore dei programmi europei di Amnesty International, dichiarò che “la decisione può essere vista come un modo per fare i conti con il passato comunista, ma in realtà segue lo stesso stile sovietico di repressione del dissenso. La libertà di espressione era una delle ragioni delle proteste di Euromaidan. Mettere al bando il partito comunista è contrario a quegli ideali”.

La messa al bando di emittenti filorusse

Le prime emittenti televisive messe al bando con l’accusa di fare propaganda al soldo di Mosca risalgono all’agosto 2014, quando – a seguito della legge “Sulla protezione dello spazio radiotelevisivo ucraino” promulgata in febbraio – quattordici canali russi, che trasmettevano da oltre confine, vennero bloccati. Altre quindici emittenti vennero oscurate nel febbraio 2016. L’ultima, in ordine di tempo, è del luglio 2016. Non sempre il blocco viene presentato come un’azione necessaria a difendere il paese dall’aggressione mediatica russa, più spesso si applicano norme burocratiche, legate a diritti scaduti e non rinnovati, o mancati pagamenti. Tuttavia il sospetto che i motivi siano di ordine politico è forte. Nel giugno 2016 diciassette giornalisti, alcuni di cittadinanza ucraina, sono stati accusati di diffondere la propaganda di Mosca. Inseriti in una lista nera da Kiev, si sono visti comminare sanzioni che vanno dal divieto di ingresso nel paese al blocco dei conti bancari. Tra questi anche Margarita Simonyan, direttrice della filiale ucraina di Russia Today, emittente televisiva di proprietà del governo russo, principale megafono del Cremlino. Il provvedimento scatenò ancora la reazione di Amnesty International, ma Kiev si difese sostenendo di non poter dare voce a una testata che dipende direttamente da un paese invasore.

Singolare, quanto esemplificativo, il caso della televisione Inter che, nel settembre scorso, è stata assaltata da un gruppo di nazionalisti ucraini. L’emittente, vicina alle ragioni di Mosca, è di proprietà di Dmitro Firtash, oligarca ucraino, già arrestato a Vienna per crimine organizzato. Firtash è uomo capace di coniugare molti interessi: oltre alla fedeltà verso Mosca, appoggiò Poroshenko nella campagna presidenziale, ed è stato individuato dal FMI come uno dei responsabili dell’allocazione dei fondi per la ricostruzione del paese. Nel maggio 2015, Firtash concluse un accordo milionario con la rete Euronews che, per questo, finì anch’essa vittima del bando ucraino.

La messa al bando dei libri

L’otto settembre scorso il Consiglio dei ministri ucraino ha proposto infine un disegno di legge che vieta la diffusione nel paese di qualsiasi pubblicazione russa dai contenuti “anti-ucraini”. La legge prevede il bando di testi che “creino un’immagine positiva dello stato sovietico” e che “dichiarano come legittima l’occupazione del territorio ucraino”. Già nel 2015 erano stati messi al bando, per ragioni analoghe, trentotto libri di autori russi, tra cui Eduard Limonov. Il recente bando per i film russi, approvato nell’aprile scorso, sembra rivelare come oggetto della censura non sia solo la propaganda, ma l’intera industria culturale russa. Una politica pericolosa in un paese come l’Ucraina che vede, nella compresenza delle culture russe e ucraina, il fondamento della propria identità.

Fonte: “Balcani Caucaso”


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