Tre referendum sotto i riflettori. Il primo, in Ungheria: “Uno stop a Orban”, titola il Corriere. Eppure il quesito referendario era ruffiano: “Vuoi tu che il parlamento ungherese abbia l’ultima parola sulle leggi che l’Unione europea ci vuole imporre?”. Che scherziamo? Certo che Sì! Gli ungheresi parlano una lingua diversa da tutte le altre intorno, a scuola apprendono che il primo regno d’Ungheria risale all’anno Mille, e che nel 1848 Budapest insorse contro l’impero asburgico. E invece No! Una maggioranza del popolo magiaro, il 57,1% degli aventi diritto al voto, ha scelto ieri di restarsene a casa, di non andare a votare pur di non dire sì, al suo nazionalismo autoritario, alla strumentalizzazione palese di quei, soli, 1300 profughi che l’Unione europea chiede all’Ungheria di accogliere.
Referendum in Colombia: no alla pace con le Farc. La notizia non è ancora sui giornali e per certi versi è sorprendente. Come? Un paese segnato da mezzo secolo di guerra civile dice No alla pace, vuole la guerra, vuole lenire le ferite spargendo altro sangue? Devo dirvi, tuttavia, (e naturalmente a voi la libertà di credermi o no) che ieri sera vedendo in tv certi foto montaggi con guerrigliere comuniste metà in armi e metà pronte ad amare, ascoltando il presidente Santos che parlava di pace come fosse un pranzo di gala, e sorvolava il punto dolente dei risarcimenti a vittime e famiglie, e taceva sul terzo incomodo tra esercito e Farc, cioè le bande paramilitari, presentandosi come padre della nazione che pretende il giusto plauso, beh il dubbio mi aveva assalito: e se votano No? L’hanno fatto.
Referendum costituzionale, il No è al 52%, secondo Pagnoncelli. Leggendo il “pezzo” ecco le chicche: il 54% degli intervistati dice di “saperne qualcosa” (del referendum) nonostante – nota Pagnoncelli – i mezzi d’informazione non parlino d’altro. Forse ne parlano male? Forse insistono troppo sugli anatema del premier? “Se vince il No ci giochiamo i prossimi venti anni”, ha detto ieri. Forse non spiegano la natura delle modifiche, non mostrano l’articolo 70 sul potere legislativo che era lungo tre righe nel vecchio testo costituzionale ed ora è lungo una quaresima e non si capisce? Forse che questa campagna a negare il nesso evidente tra la riforma costituzionale e la legge elettorale proprio mentre discute di cambiare – chissà perché? – quella legge? Temo che molti concittadini stiano subodorando la truffa. Fatto sta che i fautori entusiasti del Sì sono passati dal 25 al 23% mentre quelli No sono rimasti fermi al 25%. Gli indecisi sono cresciuti dal 7% all’8% come coloro che si dicono intenzionati ad astenersi: erano il 42 ora e sono il 45%.
E` indetto referendum popolare – recita l’articolo 75 della Costituzione – “per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali”. Con il referendum i costituenti avevano voluto dare ai cittadini la possibilità di dire No. E saggiamente, per evitare che il legislatore si sentisse su ogni argomento sotto la spada di Damocle, avevano escluso la possibilità di far ricorso a referendum abrogativo per “le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”, un giusto bilanciamento tra autonomia del parlamentare e ricorso al giudizio diretto del popolo sovrano. Già, ma il referendum oppositivo? Ecco cosa dice l’articolo 138: “Le leggi (di revisione costituzionale) sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi”. Anche qui i Costituenti intendono offrire un’arma, la possibilità di un giudizio in ultima istanza, a chi non fosse d’accordo con le modifiche alla Costituzione apportate da una maggioranza parlamentare.
L’uso del referendum come plebiscito a favore di chi governa è pericoloso. Lo ha sperimentato a sue spese un grande del passato, Charles De Gaulle, il quale dopo aver sconfitto il maggio francese e stravinto le elezioni del 1968 – il suo partito ottenne 358 dei 487 seggi – volle controllare che la sua popolarità fosse rimasta intatta. Perciò, motu proprio, sottopose a referendum un progetto che prevedeva una trasformazione (minore) del Senato e il trasferimento di taluni poteri alle regioni. Fu sconfitto, lasciò la politica e si ritirò a Colombey les Deux Églises. Sappiamo come sia finita per David Cameron, l’apprendista stregone che chiese ai britannici di votare remain delegando a lui il compito di tenere a bada l’Europa. Asfaltato. Theresa May ha annunciato che il Regno Unito sta per avviare la procedura per uscire dall’Unione europea e riconquistare – testuale – la piena sovranità britannica.
Un ossimoro, una contraddizione in termini. Sinceramente questo a me sembra la campagna per il Sì alle riforme del governo Renzi. Una campagna che doveva servire per oscurare le difficoltà del governo, che ha fatto le sue prove alle feste dell’unità, che rimbomba a reti unificate per bocca delle parlamentari e dei parlamentari di maggioranza, che rispunta nelle domande delle giornaliste e dei giornalisti che ricevono le veline di Sensi. Una cosa tanto strumentale proprio non si regge. Viva l’Italia che dice Sì? Ma noi l’abbiamo avuta quell’Italia prima in orbace, poi a Piazzale Loreto a godersi Mussolini a testa in giù, l’abbiamo vista nelle processioni dietro madonne pellegrine che invocavano punizioni divine contro sindacalisti e comunisti, l’abbiamo rivista in piazza quando Berlusconi, Fini e Casini saltellavano giulivi strimpellando “chi non salta comunista è!” Sabato tantissime donne sono scese in piazza a Varsavia contro un disegno di legge che vuole proibire ogni forma di aborto. Oggi dovrebbe essere in Polonia “il lunedì nero”, con lo donne che scioperano. Gli anti aborto hanno la maggioranza assoluta dei seggi, ma se si arrivasse a un referendum scommetterai sul No.