Alcuni mesi fa il Parlamento ha approvato una legge che modifica molti articoli della seconda parte della Costituzione, relativi in particolare alla struttura e alle funzioni del Senato e ai rapporti fra lo Stato e le Regioni.La legge non è ancora entrata in vigore e saranno gli italiani a decidere,il prossimo 4 dicembre, se accettarla o bocciarla con il referendum previsto dall’art. 138 della Costituzione. Su questa legge e questo referendum si sentono discorsi spesso approssimativi e qualche volta poco precisi. È bene quindi dedicare un po’ di tempo a chiarirsi le idee sull’argomento.
Mi sembrano però opportune due brevi premesse. La prima riguarda il clima incandescente che spesso si respira in questi giorni: una sorta di guerra civile fra chi vuole votare SI e chi pensa invece di votare NO, quasi che tutti quelli che esprimono un’idea diversa dalla mia debbano essere per forza trattati come nemici e traditori meritevoli delle più pesanti offese.Questo clima non si addice al momento attuale che meriterebbe ben altra serietà, perché la Costituzione è di tutti e a tutti converrebbe accantonare i contrasti e valorizzare quel che abbiamo in comune, come a suo tempo seppero fare i Costituenti.
L’altra premessa riguarda non il referendum ma, più in generale, tutte le riforme della Costituzione. Si sente dire con una certa frequenza che – mentre la prima parte della Carta, sui diritti e i doveri dei cittadini, non può essere cambiata – la seconda, sull’ordinamento della Repubblica, può invece subire tutte le modifiche che di volta in volta il Parlamento ritenga necessarie o anche solo opportune. Entrambe le tesi sono inesatte, almeno per il modo perentorio in cui sono formulate.
In verità anche per la prima parte sono possibili, anzi auspicabili, tutte le modifiche che aumentino la tutela dei diritti fondamentali. E a sua volta la seconda parte, proprio perché descrive come la Repubblica è organizzata, è servente e strumentale rispetto alla prima, per cui (come disse un Maestro del diritto costituzionale come Leopoldo Elia) eventuali squilibri provocati da riforme sul funzionamento di organi previsti dalla seconda parte della Costituzione (come il Parlamento o la magistratura) potrebbero compromettere la tutela dei diritti di cui alla prima parte. Perciò la distinzione fra le due parti della Carta è argomento da maneggiare con molta cautela.
Veniamo ora alla legge di riforma costituzionale oggetto del referendum.
Questa legge contiene 41 articoli che, modificando ben 48 degli 84 di cui è composta la seconda parte della Costituzione, riempiono ben 32 fitte pagine di un apposito fascicolo stampato dalla Camera dei deputati.Perciò è facile che in una legge così complessa molti elettori possano trovare argomenti condivisibili e argomenti inaccettabili.
A fronte di tale complessità il referendum è invece uno strumento molto semplice e quasi rozzo, perché costringe il cittadino elettore a scegliere fra due sole possibilità. Ciascuno di noi avrà infatti fra le mani una scheda con due caselle, una con la scritta SI e l’altra con la scritta NO: votare SI significa confermare tutta la legge e modificare il testo attuale della Costituzione; votare NO significa invece bocciare tutta la legge e lasciare la Costituzione così com’è. L’elettore perciò non potrà accettare alcune parti della legge e rifiutarne altre, ma dovrà giudicare la riforma nel suo insieme per verificare se in essa prevalgano gli aspetti che egli ritenga giusti o quelli che gli appaiano sbagliati.
Si era parlato di un possibile “spacchettamento” per ottenere, magari prospettando questioni di costituzionalità, una scheda per ogni argomento. Ma la Corte di Cassazione ha deciso che il quesito rimanga unico e perciò – benché di recente siano state autorevolmente prospettate altre iniziative –resta necessario esaminare tutta intera la legge capirne bene il contenuto.
Purtroppo sul contenuto della riforma i cittadini non sono sufficientemente informati. Infatti i sostenitori del SI di solito si limitano a dire che la riforma otterrà tutti i risultati positivi indicati nel titolo della legge: superamento del bicameralismo paritario, riduzione del numero dei parlamentari e dei costi di funzionamento delle istituzioni, soppressione del CNEL,revisione del titolo V della seconda parte della Costituzione sui rapporti fra Stato e Regioni. E analogamente i sostenitori del NO spesso si limitano a dire che la riforma non potrà mai raggiungere questi obiettivi e qualcuno aggiunge che in futuro essa potrebbe addirittura favorire l’avvento di regimi autoritari. Verosimilmente a tale situazione si riferisce il Presidente della Repubblica quando – come ha fatto sia in passato sia di recente – auspica che gli elettori siano messi in grado di scegliere fra SI o NO solo in base al merito della riforma.
In altre parole per votare correttamente non dovremo decidere se approviamo o disapproviamo le finalità cui mirano coloro che hanno scritto e votato la legge, ma invece valutare se gli strumenti da essi concretamente apprestatici appaiano o meno idonei a realizzarle.
Proprio su questi strumenti proverò a dare qualche informazione. Ma bisogna pur dire che, per accettare o bocciare una riforma costituzionale ampia come quella di cui ci occupiamo, l’elettore dovrebbe aver letto almeno una volta la Costituzione vigente per poter valutare bene i cambiamenti che la riforma le vorrebbe apportare.
Punto centrale di questa riforma è la modifica del sistema parlamentare.
Attualmente abbiamo un bicameralismo paritario, cioè un Parlamento composto da due organi, Camera dei deputati e Senato,che hanno gli stessi poteri nel senso che entrambi approvano le leggi ed entrambi concedono e revocano la fiducia al Governo. La riforma vuole passare a un altro sistema in cui i due organi avrebbero funzioni differenti, la fiducia al Governo sarebbe data e revocata dalla sola Camera, e il Senato verrebbe ampiamente modificato.
I fautori della riforma hanno ammesso, specie negli ultimi tempi, che essa potrà forse contenere errori, aggiungendo però che una riforma con qualche difetto è preferibile a nessuna riforma. Dietro questo argomento c’è forse la convinzione che mutare l’attuale stato delle cose è sempre di per sé positivo e invece conservare la situazione esistente è sempre di per sé negativo.
Personalmente ritengo invece importante non tanto se si cambia o non si cambia qualcosa (nel nostro caso la Costituzione), ma piuttosto come la si cambia, cioè quali specifiche novità vi si vogliano inserire,per cui se la situazione esistente fosse modificata in modo sbagliato, e quindi peggiorativo, molto meglio sarebbe non cambiarla affatto e lasciarla così come è, magari in attesa di occasioni migliori, perché la storia purtroppo conosce anche cambiamenti da cui sono derivati disastri enormi.
Aggiungo subito di non essere pregiudizialmente contrario a superare il bicameralismo paritario. So bene che esso fu voluto dall’Assemblea costituente nel clima (sperabilmente finito) della guerra fredda, in cui i due principali partiti italiani si fidavano tanto poco l’uno dell’altro da preferire entrambi un Parlamento con due camere, ciascuna delle quali potesse modificare le decisioni dell’altra; e conosco gli inconvenienti che nel tempo questo sistema ha provocato. Ma i pur innegabili vizi del bicameralismo paritario non dovrebbero da soli poter obbligare i cittadini ad accettare qualsiasi cosa i riformatori vogliano mettere al suo posto.
Esaminiamo ora la legge di riforma,prima nel metodo e poi nel merito.
Circa il metodo, la riforma è nata da un disegno di legge presentato dal Governo come suo vanto ed è stata approvata dalla maggioranza parlamentare da cui il Governo è sostenuto, con taluni appoggi esterni ma con un’ampia opposizione. Ciò significa che alla legge di riforma costituzionale è stata applicata la stessa procedura con cui il Parlamento discute e approva ogni altra legge.
I sostenitori del SI alla riforma ritengono che queste modalità, pur se discutibili, possano essere tollerate perché in sostanza sono esse che hanno consentito la sollecita approvazione della legge.
I sostenitori del NO obiettano che la Costituzione non è una legge qualsiasi che ben può essere approvata dalla maggioranza parlamentare di oggi per ragioni legate all’attualità e poi essere modificata, magari poco tempo dopo, per il prevalere momentaneo di altre forze politiche. Invero la Costituzione sta al di sopra di tutte le leggi, in quanto esprime le basi comuni della convivenza civile e politica fra i cittadini, non solo di oggi ma anche di domani, essendo destinata a durare per un futuro indeterminato.
Perciò ogni legge di riforma della Costituzione dovrebbe essere frutto del più ampio consenso possibile fra le forze politiche, maturato in esito a dibattiti approfonditi da cui siano emersi sia gli aspetti problematici che le eventuali accettabili mediazioni: al riguardo è esemplare la già ricordata esperienza dell’Assemblea costituente nel biennio 1946-47.
Sempre sul piano del metodo, i critici della riforma affermano che modificare la Costituzione è impresa molto impegnativa, da affidare perciò non al Governo (espressione di una parte, sia pur maggioritaria, dell’elettorato) ma al Parlamento (organo rappresentativo di tutte le espressioni politiche del popolo sovrano). E qui la faccenda si complica perché il Parlamento attuale, che ha approvato la riforma, è stato eletto in base a una legge elettorale, nota con la significativa definizione di porcellum, dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale (sentenza n. 1/2014). Taluni perciò ritengono che sarebbe stato preferibile lasciare il compito di modificare a fondo la Carta fondamentale della Repubblica a un altro Parlamento eletto con una nuova legge elettorale, stavolta conforme a Costituzione.
Sempre sul piano del metodo, il Governo – che inizialmente aveva presentato la vittoria del SI come decisiva per la propria permanenza in vita– poi ha modificato questo suo atteggiamento.E ha fatto bene, perché con il referendum previsto dall’art. 138 della Costituzione i cittadini sono chiamati a dire, scegliendo tra SI e NO, se approvano o bocciano un progetto di modifica costituzionale e non se il Governo debba rimanere in carica o dimettersi.
Al riguardo si è anche rilevato che – dopo il referendum tenutosi in Gran Bretagna che ne ha sancito l’uscita dall’Unione europea – l’eventuale vittoria del NO al nostro referendum, risolvendosi in una sconfitta del Governo italiano e provocandone le dimissioni, potrebbe produrre effetti destabilizzanti non solo per l’Italia ma per l’intera eurozona.
A questo rilievo si è risposto che per evitare un esito così nefasto non sarebbe indispensabile che gli elettori votino in maggioranza per il SI. L’eventuale prevalenza del NO avrebbe invero l’unico effetto di non far entrare in vigore la legge di riforma costituzionale, ma il Governo – avendo ancora la fiducia del Parlamento – non sarebbe affatto tenuto a dimettersi e ben potrebbe (anzi dovrebbe) operare attivamente anche in prospettiva europea.
Dai sostenitori del SI si parla a volte di abolizione del Senato, che però dalla riforma non sarebbe abolito, ma trasformato. Il nuovo Senato infatti dovrebbe essere composto non più, come è ora, da 315 senatori eletti direttamente dai cittadini, ma da soli 100 membri non da essi eletti (art. 2).In particolare 95 sarebbero scelti–con modalità che saranno stabilite da una futura legge approvata da entrambe le Camere– dai consigli regionali fra i propri componenti e tra i sindaci dei rispettivi territori“in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”(cioè, forse ?, in modo da rappresentare sia le maggioranze che le opposizioni nella stessa misura risultante dalle ultime elezioni regionali). E altri 5 potrebbero essere nominati per 7 anni dal Presidente della Repubblica tra persone che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale scientifico artistico e letterario.
Secondo i fautori del SI,la norma che affida ai consigli regionali la scelta dei consiglieri e dei sindaci destinati a diventare anche senatori valorizza l’importanza delle autonomie locali.
Invece i fautori del NO criticano che tale scelta debba essere fatta, con modalità non del tutto chiare, da un ceto politico che purtroppo non ha sempre offerto al paese esempi illuminanti. E c’è anche chi contesta che illustri cittadini, spesso noti e stimati anche all’estero, siano premiati dalla Patria con l’inserimento in un organo che non rappresenta la Nazione (questo compito spetterebbe esclusivamente alla Camera) ma solo le istituzioni territoriali, ossia le regioni e i comuni.
Del nuovo Senato continuerebbero poi a far parte a vita gli ex Presidenti della Repubblica che perciò, dopo avere durante il mandato rappresentato l’unità nazionale (art. 87 Cost.), da Presidenti emeriti rappresenterebbero soltanto le citate istituzioni territoriali.
Passiamo ai compiti del nuovo Senato. La legge di riforma (art. 1) dice che esso“rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all’esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabilite dalla Costituzione, nonché all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea.Valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato”.
I sostenitori del SI ritengono che tale norma riveli il nuovo ruolo costituzionale del Senato, che sarebbe– da un lato – di raccordo tra lo Stato e il complesso delle autonomie e – dall’altro – di garanzia ed equilibrio dell’intero sistema istituzionale.
Nel campo del NO invece si critica in particolare la scelta di affidare ad un’assemblea di rappresentanti delle autonomie locali il compito di valutare, sotto svariati profili, i rapporti fra Italia e l’Unione europea, ossia una materia che – specie nel delicatissimo momento attuale – è di importanza decisiva per le sorti dell’Italia e dell’Europa, e perciò dovrebbe essere riservata alle più alte istituzioni rappresentative della Repubblica. E sotto altro profilo si ritiene contradditoria l’attribuzione di non pochi compiti di controllo sull’attività del Governo ad un organo che, non accordando ad esso la fiducia, non potrebbe poi revocarla se tale controllo avesse esito negativo.
Inoltre – e si tratta di un punto molto importante – la riforma prevede (art. 10) che in un gran numero di casi il vecchio bicameralismo paritario rimanga in vita. Infatti l’art. 70 della Costituzione – mentre nel testo vigente afferma con chiarezza che “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”– secondo la riforma dovrebbe essere così modificato: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali,e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo,le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma,117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120 ,secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma”.
In sostanza secondo questo articolo –la cui forma mi richiama più il linguaggio spesso criptico delle leggi finanziarie che quello chiaro e solenne di una Carta costituzionale –in tutte le materie indicate lascia in vita il criticato bicameralismo paritario e istituisce un singolare organo che, da un lato,“rappresenta le istituzioni territoriali” (regioni e comuni) e, dall’altro, approva insieme alla Camera dei deputati un’ampia serie di leggi statali (!).
In tutte le altre materie le leggi sarebbero invece approvate dalla sola Camera, che però dovrebbe trasmettere al Senato ogni disegno di legge da essa approvato; e il Senato avrebbe un termine per decidere se esaminarlo e altri termini, diversi secondo le materie, per deliberare eventuali proposte di modifiche sulle quali la Camera si pronunzierebbe in via definitiva, in alcuni casi con maggioranza semplice e in altri con maggioranza assoluta.
I fautori del SI ritengono che questo sistema renderà sicuramente più agili e veloci i lavori parlamentari.
I fautori del NO temono invece che una tale varietà di procedimenti, di termini e di poteri nei rapporti fra le due Camere possa far diventare quei lavori ancor più farraginosi di oggi, provocando incertezze, conflitti e altrettanti giudizi di costituzionalità.
Tra l’altro non è chiaro se la Camera– ove ritenga che la proposta senatoriale di modifica di una legge da essa approvata non possa essere accolta nei termini in cui è formulata, ma nemmeno possa essere respinta non apparendo del tutto infondata –possa apportare ad essa modifiche diverse da quelle proposte, né se in tal caso il Senato possa su tali modifiche suggerire ulteriori variazioni. Se la risposta al secondo quesito fosse negativa, la Camera deciderebbe da sola il contenuto di una legge impedendo ogni intervento del Senato.
Né sarebbe sempre facile decidere nei singoli casi quale procedura parlamentare debba essere seguita. Ad esempio – poiché la riforma prevede l’approvazione di entrambe le Camere per le leggi concernenti le funzioni fondamentali dei comuni –una legge statale che a certi fini prevedesse una qualche attività dei comuni dovrebbe essere, per questa parte, approvata dalla sola Camera se quell’attività fosse riferibile a funzioni comunali non fondamentali, mentre dovrebbe essere approvata anche dal Senato ove venisse invece riferita a funzioni fondamentali.
È vero che la legge di riforma non ignora questa tipologia di problemi prevedendo(art. 10) che “I presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza”, ma è anche vero che non dice cosa accadrebbe se i due presidenti non riuscissero a mettersi d’accordo.
La riforma, come si è detto, riduce il numero dei senatori da 315 a 100, ma lascia inalterato a 630 quello dei deputati.
I fautori del SI ritengono positiva la riduzione del numero complessivo dei parlamentari.
I fautori del NO temono che la riforma comporti un notevole squilibrio numerico fra le due componenti del Parlamento e renda praticamente irrilevante la posizione del Senato nel Parlamento in seduta comune, che tra l’altro elegge il Presidente della Repubblica e i componenti laici del Consiglio superiore della magistratura.
Quanto all’elezione del Presidente della Repubblica la riforma (art. 21), modificando il testo attuale della Costituzione (art. 83), prevede che,dopo i primi tre scrutini in cui è necessaria la maggioranza di 2/3 dell’assemblea, dal quarto occorra la maggioranza dei 3/5 dell’assemblea e dal settimo quella dei 3/5 dei votanti.
I sostenitori del SI affermano che tali maggioranze più alte garantiscono l’elezione di persone che riscuotano un consenso diffuso in gran parte delle forze politiche presenti in Parlamento.
La norma è invece criticata dai sostenitori del NO, per i quali le modifiche costituzionali previste dalla riforma devono essere considerate insieme alla legge elettorale della Camera, n. 52 del 2015, nota come Italicum, che è improntata a un forte effetto maggioritario perché attribuisce un premio di maggioranza di 340 seggi, pari al 54% di essi, alla lista che al primo scrutinio abbia superato il 40% dei voti o altrimenti abbia vinto il successivo ballottaggio fra le prime due liste.
A loro avviso da tale combinato disposto deriverebbe un sistema nel quale una scelta delicata come quella del Capo dello Stato rischierebbe di ricadere nella sfera di influenza del Governo espresso dalla lista destinataria del premio: esso infatti, controllando la sua maggioranza parlamentare alla Camera, potrebbe agevolmente scegliere il Presidente della Repubblica quale che fosse al riguardo il parere del Senato.
Inoltre la riforma prevede (art. 12) che, in via di massima, il Governo possa chiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro 5 giorni dalla richiesta, che un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del suo programma sia iscritto con precedenza all’ordine del giorno e sia sottoposto alla pronuncia definitiva entro 70 giorni dalla deliberazione, salva una proroga di non oltre 15 giorni.
I sostenitori del SI rilevano che questa norma assicura una sollecita e integrale attuazione del programma sul quale il Governo ha ottenuto la fiducia della Camera dei deputati, con positive ricadute anche sulla posizione italiana nel contesto internazionale.
Tra i fautori del NO c’è invece chi teme che così il Governo finisca per assumere un ruolo di forte preminenza rispetto agli altri poteri dello Stato, e che strumenti adottati oggi per un più celere svolgimento dell’attività governativa possano di fatto appannare il complesso sistema di pesi e contrappesi tra poteri voluto dai Costituenti proprio per evitare domani svolte e prospettive deprecabili.
Infine, e sempre a proposito dell’incidenza sui rapporti tra poteri dello Stato,merita di essere notato che la riforma non modifica l’art. 68 della Costituzione che attribuisce l’immunità a tutti i membri del Parlamento, per cui i nuovi senatori continueranno a goderne come i deputati, pur senza essere stati eletti direttamente dal popolo.
La riforma intende poi (come espressamente enunciato nel titolo della legge) ridurre i costi delle istituzioni e in questa prospettiva i sostenitori del SI valutano positivamente la diminuzione del numero dei senatori e la soppressione delle province e del CNEL.
I sostenitori del NO rilevano invece che la riduzione del numero delle persone investite di cariche pubbliche non garantisce di per sé un miglior funzionamento delle istituzioni; e che, se davvero fosse così importante e risolutivo diminuire i titolari di cariche pubbliche,non si capirebbe perché non sia stato ridotto anche il numero dei deputati, perché il Senato non sia stato abolito del tutto, perché accanto alla drastica riduzione dei suoi componenti a 100 non si siano previsti analoghi tagli alle dimensioni e ai costi degli uffici amministrativi,rimasti al livello di quando i senatori erano 315.
Sempre in materia di costi,a sostegno del SI si cita spesso la norma (art. 35) secondo cui gli emolumenti dei membri degli organi regionali (e quindi anche dei consiglieri regionali e dei sindaci designati a svolgere anche funzioni di senatore) non possono superare quelli dei sindaci dei comuni capoluogo di regione. E per contro si sottolinea a sostegno del NO come anche qui nascano dubbi, perché gli emolumenti di questi sindaci non sono tutti eguali e perché non è chiaro se il tetto si riferisca alla sola indennità spettante ai sindaci o anche alle somme ad essi corrisposte (magari forfettariamente) come rimborso di spese.
La riforma riguarda infine l’assetto dei rapporti fra lo Stato e le Regioni.
I sostenitori del SI ritengono positivo che la riforma abbia spostato parecchie competenze dalle Regioni allo Stato ed abbia eliminato le competenze concorrenti, ossia quelle materie in cui attualmente spetta allo Stato enunciare i principi generali e alle Regioni porre la disciplina di dettaglio.In tal modo sarebbe stata resa più chiara la linea di confine tra i settori attribuiti alla competenza esclusiva dello Stato e quelli spettanti invece alla competenza regionale, ossia il terreno su cui, dopo la precedente riforma del 2001, è nata la maggior parte delle liti fra Stato e Regioni su cui è stata molte volte chiamata a pronunziarsi la Corte costituzionale .
Dal loro canto i fautori del NO ritengono negativo il restringimento delle competenze regionali, rilevando tra l’altro che esso riguarda le sole regioni a statuto ordinario, per cui la minore autonomia di esse rispetto alle 5 regioni a statuto speciale, già notevole nel sistema attuale,diverrebbe ancor più accentuata, con evidenti e irragionevoli disparità di trattamento. In particolare rilevano che, secondo la legge di riforma(art. 39, comma 13), le disposizioni relative alla potestà legislativa regionale si applicheranno alle Regioni autonome e alleProvince di Trento e Bolzano solo dopo la revisione dei rispettivi statuti“sulla base di intesa con lo Stato”. E siccome per fare un’intesa occorre essere in due, Regioni e Province autonome potrebbero liberamente rifiutare ogni intesa con lo Stato, così facendo aumentare ancor di più la loro autonomia rispetto alle Regioni ordinarie.
I fautori del NO rilevano anche che l’affermata eliminazione delle competenze concorrenti sulle materie nelle quali (come si è detto) lo Stato enuncia i principi generali e le Regioni pongono la disciplina di dettaglio in realtà non esiste. Infatti per molte e importanti materie (tutela della salute, politiche sociali e sicurezza alimentare; istruzione e formazione professionale; forme associative dei comuni; attività culturali e turismo; governo del territorio) la riforma su cui voteremo attribuisce bensì la competenza esclusiva allo Stato, ma ambiguamente riferisce tale competenza esclusiva solo alle disposizioni generali e comuni, per cui si deve pensare che in quelle stesse materie tutte le disposizioni di dettaglio restino attribuite alle Regioni. E così la distinzione fra norme generali e norme di dettaglio – che in teoria sembra facile, ma in pratica sicuramente non lo è –pur se scacciata dalla porta, rientrerebbe bellamente dalla finestra.
In tema di controversie fra Stato e Regioni, l’esame della giurisprudenza della Corte costituzionale dimostra che esse, specie dopo il 2001, sono nate quasi sempre a proposito dei criteri di ripartizione fra materie di competenza statale e materie di competenza regionale. E ciòè accaduto perché queste materie non possono e non potranno mai essere separate con tagli netti per la semplice ragione che non esistono in natura come realtà facilmente distinguibili le une dalle altre. Un solo esempio:chi potrebbe agevolmente tracciare la linea di confine fra tutela dell’ambiente e dell’ecosistema(che la riforma attribuisce alla legislazione esclusiva dello Stato: nuovo art. 117, comma 2, lettera s) e governo del territorio (che la riforma attribuisce allo Stato per le sole disposizioni generali e comuni, così lasciando alle regioni la competenza sulle questioni di dettaglio ivi, lettera u)? Non può escludersi che questo sistema – lungi dal semplificare i rapporti fra Stato e Regioni – li renda ancor più problematici con inevitabile aumento del contenzioso avanti la Corte costituzionale.
Perciò – oltre ad un’opportuna opera di semplificazione dei criteri di ripartizione fra materie di competenza statale e materie di competenza regionale–il miglior rimedio per far diminuire le liti sarebbe un deciso sforzo di buona volontà di tutte le parti,cui si dovrebbe offrire un’appropriata sede di discussione e confronto. Tale sede non sembra poter essere il nuovo Senato, nel quale 95 senatori su 100 rappresentano regioni e comuni e non è chiaro chi possa rappresentare lo Stato. Taluni ritengono che meglio sarebbe stato inserire in Costituzione la Conferenza Stato-Regioni che esiste da anni e talora è riuscita a lavorare in modo efficace.
Un altro punto della riforma meritevole di considerazione è la previsione per cui, su proposta del Governo, la legge statale può intervenire in materie di competenza regionale ove lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica o la tutela dell’interesse nazionale.
I sostenitori del SI approvano il recupero di un concetto già presente nel testo originario della Costituzione (art. 127) e poi soppresso dalla riforma del 2001 (ma recuperato in qualche maniera dalla Corte costituzionale).
Per contro i sostenitori del NO temono che siffatta tutela dell’interesse nazionale possa operare solo su proposta del Governo, così restando sottratto al Parlamento il potere di valutare in autonomia l’opportunità di agire per la salvaguardia di interessi tanto importanti da avere rango nazionale.
Modifiche relative alla Corte costituzionale.
Distinzione fra i giudici costituzionali eletti dal Parlamento. Non più 5 eletti a Camere riunite, ma 3 eletti dai 630 deputati e 2 eletti dai 100 senatori. I sostenitori del SI dicono che in tal modo si garantisce la presenza nel collegio di giudici di orientamento regionalistico. E i sostenitori del NO obiettano che in questo modo si introdurrebbe nel supremo organo di garanzia costituzionale un inaccettabile concetto di giudice aprioristicamente vicino alle posizioni di una delle parti.
Comunque la ragionevolezza dell’elezione separata è posta in dubbio sotto ulteriori aspetti: perché i 630 deputati eleggerebbero 3 giudici costituzionali, cioè un giudice ogni 210 elettori, e i 100 senatori ne eleggerebbero 2, cioè un giudice ogni 50 elettori; e perché invece i componenti laici del CSM continuerebbero invece a essere eletti da Camera e Senato in seduta comune.
Possibilità di sottoporre in via preventiva alla Corte costituzionale le leggi elettorali. Per il SI si afferma che in tal modo non accadrà, come è invece accaduto per il Porcellum, che un Parlamento eletto in base ad una legge elettorale dichiarata incostituzionale a distanza di anni dal suo insediamento continui ancora a funzionare. Per il NO si prospetta un duplice rischio: che la Corte resti subito coinvolta nelle polemiche tra forze politiche favorevoli e contrarie alla legge; e che dopo una sentenza resa in via preventiva in senso favorevole alla legge non si possano mai più proporre su di essa altre e diverse questioni di costituzionalità in via incidentale.
In conclusione spero di essere riuscito a fornire qualche spunto di riflessione utile al fine di poter scegliere tra SI e NO per considerazioni razionali e non per mera emotività o sentito dire.
Ma non bisogna trascurare che spesso quelli che possono a prima vista apparire difetti di una Costituzione sono invece soltanto difetti delle persone chiamate a rispettarla ed applicarla.