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Sedici anni fa moriva Antonio Russo, noi non dimentichiamo e chiediamo verità

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Antonio Russo, inviato di Radio Radicale nel Causaso, era in procinto di rientrare in Italia per portare nuove testimonianze e documenti sull’atrocità della guerra in Cecenia. Antonio nel nostro Paese non è più tornato. Se non da morto. Erano le 14 e 10 del 16 ottobre del 2000 quando la Farnesina comunicò a familiari di Russo e ai colleghi della storica emittente fondata da Marco Pannella, la notizia del ritrovamento del suo corpo privo di vita nelle vicinanze di Tiblisi, capitale della Georgia.
La porta della sua abitazione era stata trovata aperta. Antonio aveva molti nemici in quella zona a cavallo tra l’Europa e l’Asia. Sia gli amici del Partito Radicale che la famiglia ne erano consapevoli. E temevano per lui. Pochi i dubbi sulla matrice del suo omicidio, dunque. Eppure dopo anni di indagini e di silenzi da parte delle autorità locali non si sa ancora chi lo abbia ucciso e soprattutto chi ne abbia ordinato l’assassinio.
Il cadavere presentava i segni della tortura: aveva le mani e la bocca chiusa con un pezzo di nastro adesivo.
L’autopsia condotta dai medici georgiani, rilevò che il torace gli era stato fracassato da un corpo pesante ma non appuntito: aveva due fratture al torace, fratture multiple alle costole, lesioni ai tessuti polmonari. Nessuna ferita esterna evidente. “Una metodica – sottolineano i suoi compagni radicali – propria dei servizi segreti russi”.
“Antonio era lì perché non era tipo da scrivania – ricorda la sorella Beatrice – Dopo due o tre mesi di vita cittadina, scalpitava per andare altrove. Era sempre di passaggio. In Ruanda e Burundi durante i massacri hutu e tutsi; in Algeria, quando uomini, donne e bambine venivano sgozzati; a Sarajevo, quando i cecchini freddavano i civili al mercato.
Mai un recapito telefonico d’albergo. Ha sempre scelto di mescolarsi.
Russo non apparteneva all’ordine dei giornalisti: era un free-lance. Molto free.
Il suo linguaggio scarno e crudo lo teneva lontano da ogni compiacimento: non c’era alchimia, non c’era narcisismo. Orgoglio sì, e tanto, lo ricordano gli amici di sempre.
E proprio i suoi compagni di vita e di partito dal primo istante avanzarono quale matrice dell’omicidio quella russa.
La pista era emersa chiaramente anche da fatti e date politiche: nel suo ultimo intervento pubblico Antonio Russo aveva parlato del possibile uso dei proiettili all’uranio impoverito in Cecenia in una conferenza sull’impatto ambientale della guerra in Cecenia che la Federazione Russa aveva fortemente contrastato, arrivando ad accusare il presidente Georgiano Shevarnadze di collaborare con il terrorismo.
In quella sede Antonio aveva anche fatto esplicitamente riferimento alla sua ulteriormente motivazione che l’aveva spinto in Georgia: raccogliere documenti e prove a difesa della incredibile ed infamante accusa che la Federazione Russa, aveva rivolto contro il Partito Radicale Transnazionale chiedendone l’espulsione dall’Onu: narcotraffico, pedofilia e terrorismo. Qualche giorno prima della sua morte Antonio aveva comunicato ad Olivier Dupuis, allora segretario del Partito, di essere in procinto di tornare in Italia per portare la documentazione raccolta a difesa del Pr e contro la Federazione Russa. Quei documenti trafugati dalla casa georgiana di Antonio, proprio nella notte del suo omicidio.


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