Di Pino Salerno
Se Eugenio Scalfari avesse atteso ancora qualche ora prima di scrivere il suo editoriale domenicale, o se avesse, solo per prudenza, sospeso il giudizio sul confronto televisivo tra Renzi e Zagrebelsky, probabilmente avrebbe cambiato idea e linea del suo intervento sul quotidiano che ha diretto per così tanti anni. Scalfari si è detto convinto, nonostante l’amicizia che lo lega al professore, che Renzi abbia vinto nettamente il confronto, perché Zagrebelsky ha puntato tutto sull’accusa di deriva autoritaria e sul rischio che la riforma costituzionale possa condurre al potere un’oligarchia. Ma secondo Scalfari, la tradizione politica, storica e filosofica ci insegna che l’oligarchia fa parte della democrazia. Una tesi sconcertante.
Le parole di Renzi ai giovani di Scuoladem. Un caso esemplare di autoritarismo
Prima di entrare nel merito di alcune obiezioni a Scalfari, che ci sentiamo qui di offrire ai nostri lettori, vorremmo citare una dichiarazione fatta domenica mattina da Matteo Renzi alla scuola democratica, dinanzi ad un bel gruppo di giovani del partito. Quando si parla ai giovani (come Berlinguer ha sempre insegnato) non bisogna mai dimenticare, da parte dei leader politici, che quel discorso ha anche un effetto pedagogico, educativo, e dunque richiede una particolare attenzione, sensibilità e una decisa responsabilità. L’agenzia AdnKronos di domenica titola: “Renzi, giovani in scuole contro chi parla di deriva autoritaria”. Ed ecco come Renzi ha “ammaestrato” i giovani democratici: “Questa partita l’avete in mano particolarmente voi, noi abbiamo bisogno di recuperare in alcune zone, abbiamo soprattutto bisogno di un impegno capillare dei più giovani. Ho chiesto a qualcuno di voi quanti comitati ha fatto: uno di voi, con molto entusiasmo, mi ha detto già due. A quest’ora dovrebbe averne fatti 20 non due, e non sto scherzando, perché c’è bisogno di prendere tutte le scuole del vostro territorio. Le scuole, i licei. I ragazzi che votano sono spesso avvicinati da persone che vogliono raccontare la riforma e la raccontano deformata e parlano di deriva autoritaria. Anche se non servisse a niente è un fatto di educazione civica andare a spiegare che non c’è nessun rischio autoritario in Italia, ma che si sta cercando soltanto di ridurre il numero dei politici”. “C’è bisogno che ciascuno di voi – ha esortato ancora Renzi – si faccia l’elenco delle sue scuole provincia per provincia, territorio per territorio. C’è bisogno di essere in tutte le facoltà, ancora non ci siete, ancora non ci siamo, in tutte le Università, è la partita chiave dei prossimi venti anni, non tornerà un’occasione di questo genere. La partita è totalmente nelle vostre mani”.
Cosa manifesta questo “discorso ai giovani democratici”?
Perché queste parole sono significative? Perché dimostrano e testimoniano che colui il quale vorrebbe stigmatizzare l’accusa di deriva autoritaria mossa da Zagrebelsky alla sua riforma, si comporta da capo assoluto, usa espressioni come “prendere tutte le scuole del territorio”, aizza gli studenti uno contro l’altro, in modo fortemente diseducativo stigmatizzando la campagna dei Comitati del No, e indicandoli come nemici. L’atteggiamento di Renzi verso i suoi giovani è tipico del dispotismo gerarchico del capo scout, non del leader di un partito. Perché dispotismo gerarchico? Perché si usa un’accusa dell’avversario a proprio vantaggio, escludendo qualunque altra disputa sul merito, e costruendo quella forma politica che Carl Schmitt definì dell’amico-nemico. Il messaggio di Renzi ai giovanissimi aderenti del Pd è dunque chiaro, netto e dispotico: accusare gli accusatori di offesa antidemocratica, senza però spiegare loro quale sia il modello di democrazia repubblicana che la riforma di 47 articoli della Costituzione porta con sé. Immaginiamo la scena: un dibattito in una scuola che non viene mosso dalla autentica dialettica dello scambio di opinioni, più o meno condivise, ma da accuse e controaccuse (insomma, una caciara) su chi è autoritario e chi non lo è. Se questo è lo scenario, molto meglio invitare i presidi a costruire l’informazione attraverso la corretta mediazione dei docenti.
Cosa direbbe Scalfari di questa pedagogia renziana modello scout?
Cosa dirà Eugenio Scalfari dinanzi a questo muscolare tentativo renziano di educare giovanissime menti come si educano i lupetti tra gli scout, per cui il capo ha sempre ragione? E come potrebbe l’opinione pubblica non gridare allo scandalo su quelle frasi scorrette sul piano del galateo istituzionale? Cosa potrebbe dire Scalfari della particolare ideologia educativa manifestata da Renzi? E soprattutto, come può Scalfari, dimenticare le ultime affermazioni di Zagrebelsky sulla necessaria unità degli italiani quando è in gioco la riforma della Carta fondamentale? Viene alla mente l’allarme che lanciò Norberto Bobbio sulla “democrazia dell’applauso” e sui rischi della “democrazia plebiscitaria”. Lo citiamo sapendo che anche il grande filosofo della politica torinese potrebbe essere annoverato nella schiera dei nemici di Renzi. La riflessione di Bobbio entra in modo diretto nella discussione apertasi con l’editoriale di Eugenio Scalfari, se cioè l’accusa di rischio oligarchico è o meno presente nella riforma costituzionale targata Renzi-Boschi. E se dunque, il confronto televisivo ha dato ragione a Zagrebelsky piuttosto che a Renzi. Noi crediamo fermamente che Zagrebelsky avesse avuto ragione nel condurre quelle obiezioni alla riforma. E crediamo fermamente che anche Norberto Bobbio avrebbe sollevato le medesime obiezioni, soprattutto quando il combinato disposto di centralizzazione dei poteri nell’esecutivo (articolo 117 della riforma) e Italicum potrebbe trasformare una democrazia repubblicana e parlamentare in una democrazia plebiscitaria al servizio di una o più oligarchie.
Ci sorreggono le riflessioni e le ansie di Norberto Bobbio
Per Bobbio, la democrazia plebiscitaria è legittimata carismaticamente (pensate a un capo scout) e poiché segue le virtù del carisma del capo è sostanzialmente insofferente alle regole (pensate a un capo scout i cui poteri vengano limitati da un’assemblea sovrana e autonoma). La democrazia plebiscitaria, dunque, secondo Bobbio, è la manifesta ostilità verso l’autonomia del legislatore e verso l’indipendenza del giudiziario, contraddicendo la distinzione dei poteri auspicata da Montesquieu. Infine, la democrazia plebiscitaria costruisce le forme della concentrazione nelle stesse mani dei poteri sociali, adottando una sorta di regressione allo “stato patrimoniale”. È difficile non vedere come nell’azione politica e di governo di Matteo Renzi non compaiano tutti questi rischi annunciati da Norberto Bobbio. Non compaia cioè il rischio della deriva autoritaria, con la complicità di un blocco sociale oligarchico (e qui viene a mente l’analisi di Gramsci) legittimato perfino dalla nuova Costituzione. Un paio di esempi: quando Bobbio parla della concentrazione oligarchica dei poteri sociali non potremmo pensare al modo con cui Renzi ha condotto l’azione legislativa di alcuni decisivi provvedimenti? Pensiamo alle regole del mercato del lavoro definite dal cosiddetto Jobs act: le ha scritte il blocco sociale del lavoro e dei lavoratori, oppure quell’oligarchia imprenditoriale che va sotto il nome di Confindustria? E ciò non ha prodotto una lesione dell’autonomia dei parlamentari (attraverso i continui voti di fiducia)? Pensiamo alle regole della nuova scuola volute da Renzi: le ha scritte il blocco del lavoro e dei lavoratori (che anzi hanno elevato il conflitto contro di essa) oppure quella oligarchia imprenditoriale che va sotto il nome di Confindustria (ne è testimone l’uso strumentale dell’alternanza scuola-lavoro)? Dall’azione teorica e pratica del governo discende quella particolare riscrittura dei 47 articoli della Costituzione, ne sono una legittimazione sostanziale. E poiché l’azione di governo di Renzi è dettata dalla evidente ideologia della democrazia plebiscitaria, quella riforma non può che essere un tradimento della prima parte, e soprattutto la formalizzazione del legame tra governo, il suo destino, e il referendum. Come si fa a non capirlo?
Nel confronto, Zagrebelsky ha manifestato il rispetto per una Costituzione condivisa. Renzi la usa per dividere e imperare
Infine, vorremmo ricordare a Eugenio Scalfari che in diverse occasioni nel corso del confronto con Renzi, il professor Zagrebelsky si è sforzato di dire agli italiani che la Costituzione non si ferma solo in ciò che è scritto nella Carta, ma agisce anche nelle sue forme materiali e nei contesti in cui essa si applica. È in questo quadro generale che essa andrebbe interpretata e applicata. La Costituzione, continuava a ripetere Zagrebelsky, è di tutti i cittadini, del presente e del futuro, e la sua scrittura implica una responsabilità generale (sia detto a coloro che sbandierano il numero dei voti parlamentari per giustificare certi strafalcioni, perfino di sintassi e di grammatica, non solo costituzionale) e la fiducia nelle istituzioni, perciò non può essere imposta da una parte sull’altra, perché non può essere oggetto di divisioni. E se invece qualcuno pervicacemente insiste nel volerla a maggioranza? Lo fa per “imperare”, come avrebbero detto i latini, “divide et impera”. Ma se quel qualcuno dividendo volesse proprio “imperare”, non sarebbe concreta l’accusa di autoritarismo? Se così è, ci permettiamo di dire a Eugenio Scalfari, le parole amare e le considerazioni avanzate da Zagrebelsky sul rischio della deriva autoritaria sorretta da interessi oligarchici sono anche le nostre.