Giorni difficili per il mondo. Giorni in cui la Siria, devastata e ormai ridotta allo stremo, torna finalmente all’attenzione delle cronache, con le immagini di Aleppo ridotta ad un cumulo di macerie e le testimonianze dei suoi abitanti che tentano disperatamente di fuggire dall’inferno.
Giorni in cui è stato assegnato il premio Nobel per la Pace, concesso quest’anno al presidente colombiano Santos, promotore di un accordo di pace con le FARC, le forze rivoluzionarie di matrice comunista, dopo mezzo secolo di barbarie, rapimenti e narcotraffico utilizzato come fonte di finanziamento, cui lo Stato finora aveva saputo rispondere unicamente con una violenza becera e controproducente.
Giorni in cui sembra che la predicazione di papa Francesco cominci, finalmente, a sortire qualche effetto, anche se la bocciatura del referendum colombiano della scorsa settimana, indetto apposta per ottenere il consenso popolare intorno a un accordo, quello stipulato lo scorso 26 settembre a Cuba, anche grazie all’impegno del presidente Raúl Castro, che purtroppo è stato bocciato per un soffio e il cui cammino rischia di arrestarsi, benché entrambe le parti dicano di voler proseguire lungo la strada della riconciliazione. Il punto è che le FARC chiedono una pace con giustizia sociale mentre i conservatori tirannici che tengono da sempre in scacco l’America Latina vorrebbero, al contrario, una sorta di disarmo unilaterale, senza garantire al popolo quelle condizioni di benessere e giustizia sociale che i ceti più deboli rivendicano da decenni.
Giorni in cui ci si interroga, come mai prima, sul futuro del mondo, sui suoi delicati equilibri, sull’eredità avvelenata del bushismo e delle sue guerre tragiche e insensate (sono trascorsi esattamente quindici anni dall’inizio dell'”inutile strage” in Afghanistan e il bilancio fallimentare di quell’esperienza è sotto gli occhi di tutti) e sul lascito di una presidenza, quella obamiana, invece sostanzialmente positiva, anche se va detto che sta cominciando a riaffiorare in una parte dell’opinione pubblica americana la pericolosa tentazione di fare del Sud America il proprio cortile di casa e del mondo il proprio terreno di caccia, e il guaio è che queste pulsioni egemoniche non sono confinate all’interno dello zoccolo duro trumpista bensì equamente distribuite, a dimostrazione che sarà assai difficile far accettare a una Nazione che si è considerata per quasi un secolo il gendarme e il faro del pianeta l’idea che viviamo ormai in un contesto globale e interconnesso, privo di garanzie e caratterizzato da un’incertezza e da una mutevolezza degli eventi che non lascia spazio a padroni e dominatori se non in ristretti ambiti regionali.
Giorni in cui si parla intensamente di disuguaglianze (notevole, a tal proposito, il Nobel per l’Economia assegnato a Oliver Hart e Bengt Holmström) e degli effetti deleteri che esse stanno avendo sulla stabilità dei governi e sul malessere delle popolazioni occidentali, abituate, dal dopoguerra in poi, a immaginare il futuro come il regno della speranza e delle conquiste sociali e civili e costrette, al contrario, a fare i conti con prospettive di arretramento e di regressione su terreni fondamentali che suscitano, inevitabilmente, scontento e il desiderio di rifugiarsi fra le braccia di populisti e demagoghi che non promettono un mondo migliore e una collaborazione internazionale per giungere a tutele diffuse, condivise e in grado di sostenersi nel contesto contemporaneo bensì un ritorno al passato, ovviamente impossibile e illusorio ma, nonostante ciò, apprezzato sia da chi ha vissuto la stagione dorata del welfare europeo e dell’America che improntava di sé l’intero Occidente sia dalle nuove generazioni, le quali guardano con invidia un tempo nel quale i giovani non erano costretti ad accettare ogni sopruso e una retribuzione a suon di voucher pur di garantirsi quanto meno la sopravvivenza.
Giorni nei quali si marcia da Perugia ad Asssisi per un concetto, quello della pace, mai così importante e imprescindibile, mai così lontano da quell’astrattezza filosofica che rischiava di renderlo una nobile predicazione o poco più, mai così sostanziale, vitale e sentito da popoli, razze, etnie e religioni diverse, al punto che in cammino fra le due città umbre si sono presentati anche numerosi musulmani, desiderosi di mostrare il volto migliore dell’islam e di prendere pubblicamente le distanze dai carnefici del Bataclan e dai messaggi di morte inviati dal Califfo del terrore.
Giorni in cui intorno a questo miraggio, a questa breve ma intensa parola di quattro lettere, si addensano le riflessioni di una comunità internazionale bisognosa di simboli, di risposte e anche di bandiere da sventolare, essendo venute meno le grandi ideologie novecentesche e, con esse, pure gli ideali e le ragioni di un impegno civico compiuto e dotato di una visione che vada al di là della contingenza e della mera, esasperante gestione del presente.
Giorni difficili e, al tempo stesso, estremamente stimolanti, mentre sventolano i vessilli arcobaleno e si stagliano contro l’orizzonte i volti e le attese di migliaia di persone, accorse da ogni parte d’Italia per recare la testimonianza, mai come ora necessaria, che un altro modo di concepire la vita e i rapporti umani è non solo possibile ma assolutamente indispensabile.
Giorni, insomma, in cui quest’utopia, a lungo sognata e auspicata anche nei secoli precedenti e parzialmente concretizzatasi, almeno per quanto concerne il Vecchio Continente, a partire dalla fine degli anni Quaranta, non è mai sembrata così lontana ma, al contempo, sembrano più che mai vicini, ragionevoli ed essenziali i suoi valori, in una presa di coscienza collettiva grazie alla quale possiamo continuare, quanto meno, a coltivare l’ambizione dell’inizio di un percorso. Purché alla posa del primo mattone segua, in tempi ragionevoli, quella del secondo.