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Renzi-Bersani, separati in casa

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Lo scontro è rovente, permanente. Dura da quasi tre anni: da quando Matteo Renzi è diventato presidente del Consiglio e segretario del Pd. Revisioni istituzionali, riforme economiche, disuguaglianze sociali, identità del partito, alleanze, doppio incarico di presidente del Consiglio e segretario del Pd. Le sinistre democratiche, in testa Pier Luigi Bersani, criticano a tutto campo il proprio presidente del Consiglio e segretario.
Adesso lo scontro è arrivato a un giro di boa: le minoranze del partito, come le opposizioni, sono pronte a votare ‘no” al referendum sulla riforma costituzionale del governo, indetto per il 4 dicembre. Si tratta di un passaggio cruciale per Renzi, il Pd, il governo, la sorte delle legislatura. Il superamento del bicameralismo paritario, il ridimensionamento del numero e delle funzioni dei senatori, è “la madre” di tutte le riforme del governo Renzi. Un ‘no’ di una parte del Pd alla riforma del suo segretario e presidente del Consiglio avrebbe un delicato significato politico.

Aria di scissione? Da Bersani arriva un ennesimo no anche se i contrasti sono giunti a livelli altissimi: «Si può stare dentro il Pd e pensarla diversamente, le scissioni non esistono». L’ex segretario democratico ha lanciato un messaggio alla maggioranza renziana e anche ai compagni delle sinistre del partito, ricorrendo ad una battuta che chiama in causa la ministra della Difesa Roberta Pinotti: «Nessuno mi butterà fuori dal mio partito, cioè da casa mia, ci può riuscire solo la Pinotti schierando l’esercito…».

Il vento della scissione non era mai soffiato tanto impetuoso sul Pd, ma per ora è stato fermato. Nella riunione della direzione democratica non c’è stata l’intesa tra le minoranze e Matteo Renzi, ma il patatrac è stato evitato. Il presidente del Consiglio e segretario del Pd ha aperto la porta a cambiare l’Italicum, la nuova legge elettorale per le politiche, ma dopo il referendum costituzionale di dicembre. Le sinistre del Pd, che volevano un’immediata modifica dell’Italicum, hanno bocciato la proposta di Renzi considerandola insufficiente: il duro scontro continua.

Adesso tutto è appeso a un filo. Il voto del 4 dicembre sul referendum costituzionale del governo può essere la mina sulla quale potrebbe saltare l’unità dei democratici.  Pier Luigi Bersani, Gianni Cuperlo, Roberto Speranza, Massimo D’Alema sono pronti a votare “no” alla riforma costituzionale di Renzi, il loro segretario e presidente del Consiglio. Da un anno e mezzo le minoranze democratiche si scagliano contro “il combinato disposto” tra la riforma per superare il bicameralismo paritario e l’Italicum perché la somma delle due leggi darebbe troppi poteri al premier senza i relativi contrappesi democratici. Le opposizioni e anche degli esponenti delle minoranze del Pd paventano perfino il rischio di “dittatura” e di “regime”. Di qui la richiesta di cambiare l’Italicum per votare “sì” al referendum.  Secondo Bersani così «si va verso il governo di un capo». Di qui la richiesta di cambiare l’Italicum per votare “sì” al referendum.

Ancora non ci siamo. Renzi ha proposto di aprire immediatamente una discussione interna e con le opposizioni per cambiare l’Italicum, per poi varare una soluzione dopo il referendum. Ha annunciato la disponibilità ad abolire l’eventuale ballottaggio, ad assegnare il premio di maggioranza non più alla lista elettorale ma alla coalizione vincente (una delle principali richieste delle minoranze democratiche, degli alleati centristi di governo e di Forza Italia). Porte aperte al dialogo, tuttavia ha puntato i piedi sulla necessità di far vincere il “sì” al referendum: «Siamo disponibili a farci carico di ulteriori mediazioni, ma non siamo disponibili a bloccare un Paese. Per i miei figli e i nostri figli, non ci fermeranno».

I toni restano pesanti: «Non possiamo tenere fermo un Paese per tenere unito il partito». Renzi ha attaccato alcune “allucinazioni” e “fanatismi” delle sinistre Pd, giudicate un alibi per non cambiare niente. Nei giorni scorsi ha rincarato: «Non c’è nessuna dittatura» ma si riducono i costi della politica e si semplifica il processo legislativo. Si è rivolto polemicamente al suo predecessore alla guida del Pd: «Bersani ha votato ‘sì’ tre volte a questa riforma» in Parlamento,  «Bersani l’ha votata tre volte, se cambia idea per il referendum ognuno si farà la sua opinione». Ha cercato di cancellare, però, l’impostazione da crociata: «Se vince il ‘no’ non cambia niente, non dico che arriverà la peste, continueremo con gli stessi numeri e gli stessi costi».

L’addio delle sinistre del partito resta sulla sfondo. In quasi tre anni l’addio spesso è affiorato e poi è svanito. Sul tavolo non ci sono solo le accuse all’”impostazione plebiscitaria” della legge costituzionale sul superamento del bicameralismo paritario e della legge ordinaria sull’Italicum, ma le critiche vanno a tutto il pacchetto di riforme strutturali del governo. Le sinistre del Pd, in particolare, hanno attaccato la riforma del lavoro e della scuola perché basate su una visione liberista mutuata dalla “destra”, mentre Renzi le ha difese perché di “sinistra”, perché dirette a dare un futuro ai precari e a rinnovare il sistema produttivo e dell’istruzione.
Sulle scelte e l’identità del partito lo scontro è aperto. Bersani e le minoranze contestano il programma istituzionale e di governo, la trasformazione dell’identità politica del Pd, con lo scivolamento da sinistra verso destra. Renzi difende le riforme strutturali di “sinistra” con un occhio rivolto all’elettorato di destra per «far ripartire l’Italia». Bersani ha una visione diversa: «C’è una urgenza estrema di organizzare un campo largo di centrosinistra» contro le disuguaglianze sociali. È a disagio. Tempo fa ha lanciato l’allarme: questo Pd «non è più la Ditta che ho contribuito a costruire». È partita la battaglia tra i due Pd.

Lo scontro si allarga alle alleanze, alla sconfitta elettorale del Pd nelle comunali di giugno, e al doppio incarico di Renzi, premier e segretario. Le minoranze del partito bocciano i voti dei parlamentari di Ala, guidati da Denis Verdini, ex braccio destro di Silvio Berlusconi, in favore del governo. Imputano le sconfitte elettorali alla fuga degli elettori di sinistra dal Pd per la “deriva” di destra. Chiedono di separare l’incarico di presidente del Consiglio da quello di segretario.

In pratica si è aperto con grande anticipo il congresso del Pd previsto per l’anno prossimo. Renzi ha accusato la “vecchia guardia” del partito di restare ancorata al passato invece di avere “il coraggio” di guardare al cambiamento, al “futuro”. Ha accettato i voti di Verdini perché il Pd “non ha vinto” le elezioni politiche del 2013 e il governo al Senato rischiava di soccombere. E il Pd è «il più grande» partito progressista dell’Europa. Su tutto deciderà il congresso alla fine del  2017. Secondo Bersani così «si va a sbattere». La ripresa economica è debole, la disoccupazione resta alta. Renzi sfida «i populismi con le riforme», vuole far risvegliare l’Italia che è “una Bella addormentata». Il segretario e l’ex segretario del Pd hanno due visioni diverse ma convivono, almeno per ora niente scissione. Sono come due separati in casa.


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