Era la fine dell’estate 2015. I leader europei si stringevano le mani soddisfatti a beneficio di fotografi e media. Il numero di richiedenti asilo in marcia verso l’Europa cresceva di giorno in giorno. Migliaia di uomini, donne, bambini, famiglie, ragazzi appena valicati i confini del Vecchio Continente finivano bloccati nei Paesi di frontiera – Grecia, Italia – da procedure burocratiche lunghe e farraginose, pensate per una situazione molto diversa rispetto a quella presente. Crescevano malcontento, populismi e muri. Tuttavia non era possibile rimandare oltre un tentativo di soluzione europea all’accoglienza e al rispetto di quel diritto d’asilo sancito dalla Convenzione di Ginevra del 1951 cui gli stati dell’UE sono vincolati.
Nasceva in questo modo il sistema delle “quote”, più tecnicamente definito come Piano per la relocation di richiedenti asilo e rifugiati tra i Paesi membri dell’Unione Europea da completarsi entro due anni. Non partecipano Regno Unito e Danimarca, mentre Liechtestein e Islanda hanno scelto di aderire. Restano temporaneamente escluse Austria e Svezia: la prima ha ottenuto una sospensione dei trasferimenti fino al 30% della quota assegnata, la seconda beneficia di un anno di sospensione rispetto agli obblighi previsti in virtù del considerevole numero di richieste di asilo già ricevute… Continua su vociglobali