La campagna referendaria sulla riforma della Costituzione si avvia con preoccupante velocità verso la deriva plebiscitaria. Quello che conta, stando al battage mediatico pressante, è l’identificazione tra l’esito del voto e la permanenza in vita del governo Renzi. E anche a questo fine di sopravvivenza è stata preparata la Legge di Bilancio per la stabilità finanziaria del 2017, con un chiaro orientamento elettoralistico e previsioni di entrate aleatorie a fronte di spese “a pioggia” (tanto da far storcere il naso alla Commissione europea, al Fondo Monetario e all’OCSE).
Oscure per l’opinione pubblica restano comunque le norme riformate dal Parlamento, che a maggioranza ha modificato la Costituzione (elaborata nel ‘46/’48 da un’Assemblea costituente formata dalle forze politiche che avevano partecipato alla Resistenza), in una sorta di groviera piena di buchi istituzionali, esponendola così a future contestazioni presso l’Alta Corte. Qualunque sia l’esito del voto al Referendum del 4 dicembre, due appaiono le vittime di questa consultazione: la Costituzione appunto e il sistema dei media.
Se vincerà il “SI”, la Costituzione con il cosiddetto “combinato disposto” della nuova legge elettorale, l’Italicum, sposerà un sistema basato per la Camera sul proporzionale corretto con sbarramento al 3%, suddiviso in 100 collegi plurinominali, con eventuale doppio turno, laddove un partito con solo il 30% al primo turno, una volta vincitore nel successivo sul contendente, riceverebbe il premio di maggioranza, conquistando 340 seggi contro i 277 per le opposizioni. Questo sistema va subito detto che è in contrasto con la sentenza della Corte Costituzionale del 4 dicembre 2013. La Corte dichiarò infatti incostituzionali le disposizioni della Legge Calderoli, ribattezzata “Porcellum”, che assegnavano un premio di maggioranza indipendentemente dal raggiungimento di una soglia minima di voti e prevedevano la presenza di lunghe liste bloccate senza preferenze (candidati non riconoscibili all’elettore). La legge venne di fatto trasformata in un proporzionale puro con un voto di preferenza, soprannominato “Consultellum”. Una nuova legge elettorale avrebbe quindi dovuto tenere conto dei principi indicati dalla Consulta.
In effetti, il Parlamento che ha votato a maggioranza la riforma della Costituzione può essere definito “non legale”, istituzionalmente parlando. In un altro paese con una storia democratica più antica, le Camere si sarebbero “deferentemente” inchinati al volere della Corte e si sarebbero sciolte per dar vita ad un’Assemblea costituente, per riparare ai danni legislativi. Così non è stato e da ciò ne deriva che si va ad un Referendum a dir poco anomalo. Senza poi considerare il quesito posto come incipit sulla scheda per votare, così come lo spot “istituzionale” che ci accompagna ogni giorno sulle TV e che mettono in positivo il contenuto della riforma. Chi voterà “NO”, insomma, è contro gli effetti salvifici della riforma Renzi. E’ contro l’innovazione, la modernità, i risparmi, a favore dei privilegi e della lentezza legislativa perniciosa del Parlamento. E di conseguenza contro il governo!
Dell’abolizione dell’elezione diretta del Senato non si parla, in quanto, nonostante la drastica riduzione del numero a 100 membri, in realtà diventerà un Senato di 74 consiglieri regionali più 21 sindaci e 5 senatori a vita nominati dal Capo dello Stato: ovvero una Camera alta di “Ottimati”, con relative prebende e privilegi d’immunità riservata ai deputati, scelti dalle segreterie dei partiti. Meglio sarebbe stato abolire del tutto il Senato, ridurre drasticamente il numero dei Deputati e creare una Camera delle Regioni elettiva insieme alle consultazioni regionali, come istituzione di compensazione nelle discordie sulle competenze legislative e amministrative tra Stato ed enti locali (come proposta a suo tempo dalla sinistra storica).
L’altra vittima di questa campagna referendaria sono la libertà e l’imparzialità del sistema dei media, tradizionali e via rete, insieme all’autonomia professionale dei giornalisti. C’è una sorta di piaggeria dei giornalisti nei confronti dell’esecutivo, che rasenta uno “stato di soggezione” non solo psicologica. In parte si giustifica con il fatto che tutti i grandi quotidiani, rispetto ad una decina di anni fa, hanno ridotto di quasi il 50% la tiratura: meno lettori, meno pubblicità, stati di crisi generali, nessuna grande testata esclusa. I fondi statali latitano, anche se una nuova legge è stata di recente approvata, ma come sempre mancano i regolamenti attuativi. La concentrazione nella stampa e nell’editoria è ormai una prassi. La professione giornalistica, messa a dura prova dal citizen journalism della rete, dai contratti sempre più precari e dalle ristrutturazioni che espellono quanti avevano un contratto a tempo indeterminato, trasformando la massa dei giornalisti, specie i giovani, in “precari a vita” con paghe da badanti extracomunitari, non garantisce più l’autonomia e sconfina nella sudditanza culturale e politica.
In questo modo assistiamo ad una specie di “schiavismo intellettuale”, interrotto da alcuni esempi valorosi che si focalizzano sui fatti di cronaca, sulla criminalità organizzata. A scapito del pluralismo e della varietà di opinioni, che invece si riescono a trovare sul WEB, tra i siti indipendenti o tra le tante testate autonome che per fortuna pullulano nella rete.
Ed ecco il perchè della preoccupazione per i “poteri forti”, per le lobbies, per i partiti presenti in Parlamento e per la stessa maggioranza di governo di ristabilire una “narrazione” la più aderente allo statu quo, alla cosiddetta stabilità dell’esecutivo e del sistema neoliberista. Sta qui il processo mediatico di identificazione tra Referendum ed esistenza in vita del governo Renzi, veicolato come l’unico elemento salvifico della Repubblica, come l’unico baluardo per uscire dalla crisi economica, sociale e culturale che attraversa il nostro paese dal 2008.
Ma troppe sono le voci libere, seppure disperse nel mare magno della rete e dei social network. E così i sondaggi di opinione restano contraddittori sull’esito del voto, registrando comunque una metà quasi dell’elettorato ancora indeciso. Ci sono tutti i sintomi di finire come l’inaspettato voto per la Brexit in Gran Bretagna, che contraddissero i sondaggi, proprio per il gran numero di non schierati alla vigilia. Ma che soprattutto la rete riuscì a coinvolgere. Sappiamo, purtroppo, come!
Un discorso particolare va riservato al sistema dei media radiotelevisivo, dove sta passando un “monomessaggio” quasi a reti unificate (RAI e Mediaset, soprattutto) sulle virtù salvifiche di Renzi e della sua politica di elargizioni verso qualsiasi categoria o settore imprenditoriale e bancario; sulla sua politica estera di chi s’impunta nei confronti della presunta ottusità dell’Unione Europea; sulle posizioni da “surfista” in politica estera. E la sua “arma fine del mondo” viene sempre, nelle interviste, come nei report quotidiani, identificata nella riforma della Costituzione.
Grave errore di comunicazione, di persuasione occulta, di messaggistica subliminale, perché addossando tutte le aspettative su “l’uomo della Provvidenza”, eliminando la pluralità delle voci e la presenza di altri interlocutori, si rende Renzi un “nemico” da abbattere a qualsiasi costo e non ad un “avversario” politico col quale confrontarsi. L’opinione pubblica in questo caso non si esprimerà per un “SI” o per “NO”, ma aderirà ad un Plebiscito su Renzi. Con tutte le incognite immediate e, soprattutto, future, per la procurata divisione fideistica del paese, gravida di oscuri presagi