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Rami Jarrah: Dedico il mio premio ai colleghi morti in Siria per compiere il loro dovere di raccontare

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Questa lettera, e il messaggio audio che l’accompagna, sono stati inviati alla nostra redazione solo pochi giorni fa da Rami Jarrah, giornalista siriano che Articolo 21 e la Fnsi hanno insignito del Premio Paolo Giuntella. Non possiamo che accogliere la sua richiesta e allargare il riconoscimento a Bara Yusif al Bushi e Ali Mustafa e alle migliaia di giornalisti e citizen journalist che ogni giorno rischiano la vita, e spesso si sacrificano, perché credono nel dovere di raccontare la verità.

Ascolta il messaggio in audio di Rami Jarrah

Prima di rispondere al Premio Paolo Giuntella per la libertà di stampa, voglio spiegare brevemente perché non ho potuto venire a ritirarlo personalmente. Sono stato arrestato per l’ennesima volta dalle autorità turche per un fascicolo di accusa contro di me ancora aperto, un caso che resta tuttora oscuro, semplicemente perché, come per le imputazioni puramente ridicole contestate durante il mio precedente arresto (come essere una spia o in qualche modo affiliato all’Isis) non mi è stato notificato in base a cosa esattamente vengo perseguito. E tutto questo calvario è uno dei principali problemi che mi hanno impedito di venire in Italia, in quanto tuttora devo fare i conti con un divieto di lasciare il paese, sul quale sono ancora in attesa di una spiegazione.
La mia situazione è il risultato di quello che molti mi spiegano come un problema della burocrazia turca, non si sa se intenzionale o meno, perché sono molti i casi come il mio e molti devono confrontarsi con simili restrizioni: la Turchia è responsabile di gran parte della censura sulla Siria, in questi tempi in cui il giornalismo è cruciale. E’ una sfortuna che ci siano tanti ostacoli, specie quando i siriani hanno fatto tanto per consentire alle loro voci di essere ascoltate. Quindi, ancora una volta, mi dispiace di non aver potuto essere con voi.

Buon pomeriggio,

Sin da quando in Siria iniziò la rivoluzione nel 2011, letteralmente milioni di persone hanno preso parte alla lotta per la libertà d’informazione. Milioni è un’affermazione forte. Ma è vera, e lo è perché, quando i siriani si sono sollevati contro oltre quattro decadi di dittatura, il fattore principale da cui è dipeso è stata la libertà di espressione. Un elemento che, chiunque abbia tentato di ottenere, ha condotto a diventare potenzialmente una vittima, di arresto, tortura, tradimento, isolamento, e un bersaglio di accuse assurde; ma i siriani ancora insistevano.
Tra quelli di cui parlo ci sono stati molti coraggiosi individui in Siria che fecero un passo ulteriore e trasformarono le loro vite in lavoro, mostrando di essere disposti a tutto pur di sottolineare con l’ironia o puntare sulla verità di ciò che stava effettivamente accadendo in Siria.

Dall’altro lato, il regime siriano aveva ben chiaro che il suo principale nemico era chiunque avesse una telecamera, tentasse di trasmettere un messaggio al mondo esterno. Chiunque fosse disposto ad assumersi quel rischio: mentre normalmente chiunque andrebbe lodato per un tale servizio alla società, solo qui loro sono stati minacciati e puniti per i loro crimini.

Sappiamo tutti che la maggioranza della popolazione siriana è stata costretta a fuggire, e che i citizen journalist siriani, che fin dall’inizio hanno raccontato, e sono stati e sono tuttora i principali attori nella copertura giornalistica dalla Siria, sia a livello locale, che regionale o internazionale, sono anche parte di quella equazione.
Penso che questo sia la prova lampante che i siriani che raccontano il conflitto non lo fanno solo nei loro territori ma che condividono obiettivi comuni con molti giornalisti in tutto il mondo, che hanno visto qualcosa di terribile accadere e sono andati in Siria perché volevano usare la loro voce per provare a fare la differenza. Per tentare di porre un freno alla follia.
Se cerco online quanti giornalisti sono stati uccisi nel conflitto siriano, troverò liste che variano tra i 100 e i 200 individui che hanno dato la vita per cercare di raccontare la complicata vicenda della Siria. Persone da tutto il mondo che si sono sacrificate per dire al mondo cosa stava accadendo. E nonostante questa divergenza di dati, i numeri sono mostruosamente elevati.

E’ un peccato non solo che questo sia accaduto, ma anche perché questi numeri non sono corretti. Perché, nei fatti, migliaia di persone che hanno tentato di diffondere il messaggio della Siria, sono morti nel farlo. Un esempio: nel 2012 un giovane che studiava giornalismo aveva iniziato il servizio militare nell’esercito da tenente. E come molti altri disertò perché non riusciva ad accettare quello che quanti erano con lui facevano a civili innocenti, e gli ordini che riceveva dei suoi superiori per reprimere i civili.

E benché la maggior parte di quanti disertavano fossero passati nelle fila delle forze di opposizione, per andare a proteggere il pacifico movimento civile ,testimoni raccontano che questo giovane nel giorno della sua diserzione abbandonò la sua arma e impugnò una telecamera solo per dire: “non combatterò né cercherò di uccidere i miei connazionali per cercare giustizia, per me giustizia verrà dal mettere in luce la verità”.

Poco dopo la sua diserzione, le forze armate siriane attuarono un massiccio attacco alla zona di al Tal alla periferia di Damasco, in risposta alle manifestazioni di massa contro il governo del regime di Assad. E a causa dei rischi estremi che comportava rimanere nell’area, tutti quelli che stavano diffondendo notizie da lì erano andati via. Ma molti civili erano rimasti intrappolati durante l’attacco.  Il giovane con la telecamera decise di andare in quella zona, e fu l’unico giornalista a tornare indietro durante l’assalto, solo perché il regime di Assad diffondeva falsità e negava quanto stava accadendo, e lui era determinato a mostrare al mondo qual’era la realtà. E mentre si trovava lì, l’attacco al piccolo sobborgo di Damasco s’intensificò e l’11 agosto fu ucciso, e morì con in mano la sua telecamera.

Il nome di questo giovane uomo era Bara Yusif al Boushi, ancora uno delle migliaia di citizen journalist che hanno sacrificato se stessi per quello in cui credevano.

Vorrei anche ricordare Ali Mustafa, un giornalista canadese-egiziano che incontrai in Egitto durante l’attacco contro i manifestanti a Piazza Tahrir. Una volta in mezzo a tutta la follia che ci circondava, mentre stavo lì dall’altra parte della strada appena fuori dai pericoli, ero stupito di quanta passione mettesse nel riprendere tutto sul nastro della camera. Questo mi ha dato un incoraggiamento a unirmi a lui e in quel momento mi ha detto: “Dobbiamo fare di più, Rami, io voglio andare in Siria, lì le persone hanno bisogno di noi”. Non dimenticherò mai il volto di Ali quel giorno. Partì subito per la Siria e non tornò più. Il 9 marzo 2014 Ali Mustafa morì sotto un attacco con i barili-bomba.

Quindi, agli organizzatori del “Premio Paolo Giuntella per la libertà d’informazione” dico: è sicuramente una mia mancanza non aver potuto unirmi a voi per questo evento, ma sono grato dell’opportunità di rispondere.

Vi ringrazio per il riconoscimento di questo premio e vi ringrazio per il vostro sostegno a coloro che attuano il giornalismo come una causa e un servizio. E non intendo in alcun modo sottovalutare questa onorificenza, al contrario: proprio in base al suo alto valore, vorrei chiedere che il premio assegnatomi venga dato a Bara Yusif al Bushi e Ali Mustafa.

Penso che questo possa aiutarci a rappresentare il loro sacrificio e il sacrificio delle migliaia che in Siria e nel mondo hanno creduto nella libertà dell’informazione. Grazie


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