Per le prima volta i giornalisti in un hotspot. Ecco cosa ho visto

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È la prima volta che i giornalisti hanno ottenuto l’accesso in un hotspot. È stato possibile grazie all’impegno di Carta di Roma, della Fnsi, dell’Usigrai e alle campagne di LasciateCIEntrare.

Il primo ok è stato dato per l’ingresso nell’hotspot di Lampedusa, nel giorno dell’anniversario della strage nel Mediterraneo di 366 migranti.
Nel giorno in cui il nostro Paese per la prima volta commemora ufficialmente la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione.

Io sono entrato con la delegazione di giornalisti a nome della Fnsi e dell’Usigrai.
Abbiamo visitato l’hotspot costantemente accompagnati dal prefetto di Agrigento, da alcuni agenti e dagli operatori del centro.

È un fatto positivo che finalmente ci sia stata la prima autorizzazione a entrare in un hotspot.
Ma assolutamente non basta.
Non basta perché hanno vietato l’ingresso di telecamere e macchine fotografiche, e hanno vietato l’uso degli smartphone.
Non basta perché la visita è stata ampiamente annunciata, pertanto nessuna certezza c’è che abbiamo visto il centro così come è nella quotidianità.
Pertanto è necessario che una volta per tutte si stabilisca che il diritto di cronaca, il diritto dei cittadini a essere correttamente informati non può essere soggetto ad autorizzazioni.
E, in ogni caso, laddove sono necessarie, bisogna avere tempi brevi e certi, e in caso di diniego motivazioni chiare e circostanziate.

Per gli hotspot siamo poi oltre il paradosso. Ufficialmente gli ospiti non sono in stato di reclusione, come avviene nei Cie.
Eppure a Lampedusa, ad esempio, non possono uscire dal centro.
“Sapete, ci sono i turisti…”, ci dicono con una toppa peggiore del buco.
E, in ogni caso, se non è un luogo di privazione della libertà, perché bisogna chiedere l’autorizzazione ad entrare?

Insomma, l’accoglienza si fonda anche sulla trasparenza.
Servono regole chiare che assicurino il pieno diritto di cronaca.

Ma intanto noi siamo entrati.
Cosa abbiamo visto?

Oltre 200 migranti. Negli hotspot dovrebbero restare non più di 3 giorni. Alcuni sono di lì da settimane. Alcune nigeriane, minorenni, sono lì da oltre un mese. Per problemi di identificazione, dicono.

Sono divisi in padiglioni. Da una parte le donne e i minori. Dall’altra gli uomini.
Dormono su materassi di spugna. Raramente hanno le lenzuola, quelle usa e getta.
Sono camerate da 12 letti. Tra l’uno e l’altro il corridoio sufficiente a far passare una persona.
Le donne ospiti hanno provato a rendere i loro ambienti più accoglienti. E allora hanno utilizzato le coperte termiche color oro e argento con i quali i soccorritori li accolgono allo sbarco per dar loro finalmente un po’ di calore dopo il viaggio in mare.
Quei teli sono diventati fiocchi, farfalle sulle pareti delle loro camerate.

Vengono dal Mali, dalla Guinea, dalla Costa d’Avorio.
Alcuni indossano dei rosari. Altri li vedi in preghiera rivolti verso La Mecca.

I bagni sono sporchi.
Non hanno dove lavare i vestiti.
E non hanno un ambiente dove mangiare. Sono costretti a farlo nelle camerate dove dormono.

Trascorrono le loro giornate chiacchierando.
In fila alle cabine telefoniche per chiamare casa per dire che stanno bene, che sono arrivati.
Alcuni bimbi giocano nei viali con le macchinine.

E poi c’è il lavoro straordinario dei volontari.
Hanno sempre un sorriso per ciascuno di loro.
Gli fanno lezioni di italiano. Il minimo indispensabile per iniziare il processo di integrazione.

Ad alcuni migranti abbiamo chiesto cosa vorrebbero fare.
L’informatico, risponde uno.
Poi c’è chi vuole fare il calciatore.
Chi invece l’autista di camion, come gli è capitato di fare per alcune settimane nel suo Paese di origine.
Un altro invece vorrebbe studiare economia.

I volti degli uomini erano più sereni, sorridenti.
Quelli delle donne molto più sofferti e sofferenti.
In tutti si potevano vedere le paure, i timori, ma anche la speranza di una nuova possibilità.

Quella che un Paese come il nostro, patria dei diritti, dovrebbe saper offrire con un sistema di accoglienza in grado di coniugare l’inclusione con le legittime paure di chi ospita i migranti.
Ma le paure si superano solo con la conoscenza.
Ecco perché il ruolo decisivo dell’informazione.
Che deve andare a vedere, capire, per raccontare, spiegare.
E, come ha detto nei giorni scorsi Papa Francesco, spesso il mondo lo si vede meglio dalle periferie che dal centro.
E noi siamo andati in una di queste periferie.
Per vedere.
Ma anche per chiedere che presto si aprano ai giornalisti, e quindi ai cittadini, anche le altre periferie, per poter essere raccontate, illuminate.


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