Di recente il vertice Rai ha ritenuto che la cronaca nera che le reti mandano in onda abbia superato ogni limite. Non solamente perché a livello educativo si favoriscono comportamenti emulativi ma soprattutto perché sembra quasi che una faccia della moneta della realtà sia l’unica. Nella complessità di leggere il reale il giornalismo deve essere forte e tenersi radicato nel suo fondamento: non serve per distruggere il mondo ma per cambiarlo. Se si parla di violenza e di guerra per fare notizia occorre anche parlare di pace e di giustizia che sono gli unici antidoti per arginare il male.
Durante il Novecento la Chiesa è ritornata a riaffermare con fermezza il valore della pace. Per i Papi la pace è nutrita da una radice spirituale e può essere costruita da coloro che scopono la «pace del cuore» e sono capaci di dialogare con culture e religioni diverse. In quale modo si può distinguere un giornalismo che parla di pace? Quello per esempio che si prodiga per investire in formazione, oppure che racconti la costruzione della pace nei territori, o quello che dà spazio alle politiche di riduzione degli armamenti fino a prendere posizione per promuovere la riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro i poteri forti che la bloccano.
Per la Chiesa punto di arrivo per una nuova partenza rimane la costituzione pastorale Gaudium et Spes del Vaticano II (1965), che dopo aver esaminato la natura della pace, dono di Dio da accogliere e da custodire, contiene l’unica condanna radicale di tutto il Concilio: «Ogni azione bellica […], è un crimine contro Dio e l’umanità che bisogna condannare con fermezza e senza vacillazione» (n. 80).
Ma c’è di più: quale giornalismo sta promuovendo sistematicamente la giustizia? Lo sappiamo. La situazione intesa in senso stretto nelle carceri italiane rimane complessa: nei 195 istituti penitenziari italiani, sono presenti circa 54.000 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 49.480. Il tasso di recidiva all’inizio del 2015 era pari al 69%; questo significa che dei circa 1.000 detenuti che escono dalle carceri ogni giorno, circa 690 ritorneranno a delinquere.
Eppure il giornalismo al servizio della giustizia aiuta, per esempio, la popolazione carceraria a comprendersi? Si tratta di persone poco rappresentative della società se pensiamo che il 5% dei detenuti sono analfabeti, il 45% è straniero, il 38% è senza fissa dimora, solamente l’1% dei detenuti sono laureati; il tasso di suicidi nelle carceri è 18 volte superiore a quelli fuori.
E quando scriviamo di giustizia lo facciamo considerando le carceri una discarica sociale oppure un luogo per rieducare in cui è necessario coinvolgere anche la società dei ben pensanti? E ancora: il giornalismo è preparato a immettere nell’Ordinamento nuove forme di giustizia che rendano più umano e possibile la rieducazione?
Il giornalismo può avere il potere di riconciliare, perché questo è possibile. Tuttavia per «rifondare» la giustizia occorre una conversione culturale che contrapponga alla visione retributiva quella riparativa, che si fonda su una domanda: cosa può essere fatto per riparare il danno? La riparazione non è solamente riconoscimento, include un percorso di riconciliazione che è impostato su quattro passaggi fondamentali: la consapevolezza da parte del reo della propria responsabilità; la comprensione da parte del reo dell’esperienza di vittimizzazione subita dalla vittima e del danno compiuto nei confronti della comunità intera; l’elaborazione, da parte della vittima, della propria esperienza di vittimizzazione; infine, la presa di coscienza da parte della comunità dei livelli di rischio.
E tutto questo va narrato. Il modello della giustizia riparativa, chiamata anche restorative justice, è molto diffuso soprattutto negli Stati Uniti e in Canada ma il giornalismo italiano ne parla troppo poco. Proprio grazie a una parte del giornalismo nei Paesi anglosassoni, è avvenuto un vero cambiamento promosso dalle comunità, dalle persone, dal basso. Si è partiti con un’idea di restorative community e si è fatto un importante investimento sulla promozione del paradigma riparativo nella formazione dei bambini che, oltre a essere i cittadini del domani, rappresentano la possibilità di cambiare prospettiva nella risoluzione dei conflitti interpersonali.
Se il modello della giustizia riparativa sta dando buoni risultati e timidamente sta entrando anche nel nostro Ordinamento per quale motivo il giornalismo italiano non si ricompatta per dire che la pena non può rimanere (solo) detentiva? L’idea di corrispettività della bilancia della giustizia in cui al negativo bisogna rispondere con il negativo ha dimostrato il suo fallimento.
Certo non è semplice, ma per il giornalismo è a portata di mano se vuole essere al servizio della democrazia e della pace. Lo ribadisce anche l’autorevole esperienza di don Ciotti: «Non parliamo, beninteso, di un cammino facile, perché la giustizia riparativa è, prima di un sistema giuridico, un prodotto culturale, capace di promuovere percorsi di riconciliazione senza dimenticare le esigenze della giustizia “retributiva”, incentrata sul rapporto tra il reato e la pena, e della giustizia “riabilitativa”, più attenta al “recupero” del detenuto […]. Percorsi delicati, quasi mai lineari, […] perché il ricostruire le relazioni umane e il tessuto sociale non può andare a discapito dell’equità, della certezza e della funzione riabilitativa della pena».