Di Fabrizio Feo
A Napoli si spara. Certo. Non si ammazza più come un tempo. Sicuro. Ma è grave lo stesso anche se i morti non sono centinaia ogni anno, come accadeva tra il ‘79 e l’84 durante la guerra tra cutoliani e anti cutoliani, e poi anche tra l’87 e il ‘90. Si discute, e anche animatamente, sul susseguirsi dei delitti, sulla giovane età di chi spara, “la paranza dei bambini”, sulle loro barbe che evocano certi guerriglieri dell’Isis. E così via. Copertine, pagine, pagine, titoli e servizi di tg. Sono camorristi o gangster?
Giocano in proprio o lavorano per i clan, quelli “veri”, spesso in affanno o colpiti da arresti e alla ricerca di stabilità, ma con trent’anni di storia. Una cosa è sicura: le bande che scaricano i kalashnikov su avversari e innocenti o a casaccio nelle finestre catalizzano l’attenzione dei media ben più, e più a lungo, di una camorra che non spara, non è riconoscibile né secondo i canoni lombrosiani, assai silenziosa e insidiosa, non riconoscibile come tale e non solo perché non esibisce alcuno dei segni distintivi della camorra “da strada”, ma perché parla italiano correttamente, è ben vestita educata, ha studiato. Anzi ha un alto tasso di specializzazione: a scelta affari legali, sanità, ingegneria, informatica, economia e finanza. Nutrita la schiera dei professionisti che consigliano i clan e ne seguono i conti e gli investimenti .
È accaduto solo qualche settimana fa: a settembre i nomi di alcuni imprenditori e quelli di tre commercialisti, Giovanni, Andrea e Luca de Vita, compaiono nelle carte dell’indagine di Guardia di Finanza e Polizia sul clan Polverino, cosca della zona nord di Napoli, un tempo il feudo incontrastato della famiglia dei Nuvoletta, cosca di rango, “doppia tessera” di camorra e di mafia. È la stessa inchiesta in cui è comparso il nome del generale della Guardia di Finanza Giuseppe Mango, comandante interregionale del Nordest, tirato in ballo dopo che un suo amico avvocato, era stato coinvolto nell’indagine… Continua su liberainformazione