“Three Generations” di Gaby Dellal inaugura la rassegna “Alice nella città” – Il film è interpretato da Naomi Watts, Susan Sarandon, Elle Fanning. Produz. USA 2015
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La percezione di sé che agita i pensieri degli adolescenti, con un moto ondivago spesso turbato dall’ansia, dalla rabbia, dal senso di inadeguatezza e solitudine, è una materia delicata. Rappresentare gli slittamenti dei giovani verso la depressione o l’esaltazione senza cadere nel luogo comune non è impresa facile.
La regista Gaby Dellal, per decifrare la personalità di Ray/Ramona, ragazza che si sente imprigionata in un involucro estraneo alla sua reale natura, in vari momenti del film sceglie di seguirne il corpo con modalità da cinema indie. Ci mostra i suoi voli sullo skateboard dentro colori che somigliano ai suoni di una jam session o a un dipinto di Basquiat; acidi, eccessivi, infantili. Corse sui ponti di New york a velocità folle, fra bagliori di luce, perché a 15 anni si è immortali, incuranti di ogni rischio. Conta soltanto l’ebbrezza che dà fendere l’aria.
Cerca così di trasporre in immagini non banali la chimica maschile che sembra predominante nella mente di Ray.
La storia però non riesce a trovare un equilibrio convincente, oscillando di continuo fra buoni sentimenti politically correct e perplessità assolutamente condivisibili. Non voglio più essere un’eccezione protesta Ray; però la vita, a meno che non la si voglia intendere come una successione irrilevante di giorni, è fatta proprio di eccezioni, di eccedenze impossibili da ordinare sugli scaffali, di tutti i retrobottega bergmaniani della nostra anima, di doppi e tripli fondi, di note a margine e appendici, cancellature e riscritture, tifoni epifanici, improvvise deviazioni di rotta non riconducibili ad alcuna forma di normalità.
Quella normalità tanto desiderata dagli adolescenti, quella brama assurda di sentirsi accettati a qualsiasi costo. Anche a costo di affrontare un arduo percorso farmacologico e chirugico, che comunque non consentirà un impossibile “passaggio” al genere opposto, ma solo la metamorfosi in un freak liminale cui sarà precluso il piacere e che continuerà a venire irriso.
Quando si prende coscienza di guardare con desiderio le coetanee, le altre ragazze, le compagne di scuola, è infinitamente più semplice convincersi di essere un maschio con le tette, una creatura cui il destino ha giocato un brutto scherzo (e cercare di sanare l’anomalia), piuttosto che affrontare gli infiniti gradi di ambiguità che il cuore umano è in grado di contenere.
Si è spesso manichei a quell’età, non si possiedono i codici per accedere al labirinto vertiginoso della passione, alla conoscenza degli innumerevoli elementi dell’identità, al doppelganger (viandante insidioso e necessario), ai giochi combinatori nascosti dietro gli specchi.
Gli adulti di riferimento (genitori, parenti, insegnanti, psicologi, ecc.) non possono essere di grande aiuto. Le parole, i concetti, rimangono astrazioni destinate a rimbalzare contro chi non ha ancora l’esperienza, gli strumenti interiori per decifrarli e farli propri. Serve agire entro lo spazio emotivo del/la ragazzo/a, e, in quest’ottica, l’arte nelle sue varie forme rappresenta certamente una chiave per aprire la porta di un mondo lontano e incomprensibile, forse persino minaccioso, destabilizzante.
Anche l’incontro con una enchanting lady (Patricia Highsmith docet) può folgorare sulla via di Damasco la barbarie apodittica di qualunque Ramona o Ray, aprendo prospettive e possibilità impensate fino a quel momento.
Maggie, la madre di Ray (una splendida Naomi Watts, lacerata e complice nello stesso tempo), è consapevole dell’irreversibilità, e soprattutto dell’inutilità atroce, della scelta della ragazza e si chiede con angoscia chi la amerà?, svelando il paradosso di un cambiamento di genere parziale e apparente: una decisione presa per ottenere amore e considerazione dal prossimo condurrà solo a una diversa infelicità, senza ritorno.
Il tono drammatico del confronto madre/figlia, viene a tratti alleggerito, e depotenziato, dalle controscene costruite intorno alla coppia formata dalla nonna di Ray (Susan Sarandon) e dalla sua compagna. I dialoghi sarcastici che le due mature amanti sviluppano all’interno della loro relazione ed estendono alle discendenti vorrebbero riverberare l’irresistibile, nevrotica riottosità di film leggendari come La strana coppia, ottenendo invece l’effetto di produrre una nota stonata che rende incongrui e persino antipatici i due personaggi (qua e là si ha il sospetto che l’intento della regista sia proprio questo).
Dopo una seconda parte trascorsa per lo più in noiose questioni di paternità variabile che si pensava fossero una caratteristica esclusiva delle soap opera, Three generations cade nel conformismo di un finale edificante e familistico orribilmente zuccheroso. Difetto frequente nel cinema “medio” americano.