Non accade spesso di uscire dal cinema con gli occhi lucidi. A me è successo dopo aver visto “Io, Daniel Blake” di Ken Loach, e non ero il solo. Il film è stato giustamente premiato con la Palma d’Oro a Cannes, e non c’e’ molto da aggiungere a quanto è stato scritto sulla sobria e efficace regia, sulla limpida sceneggiatura, sui magnifici attori che Loach ha scoperto, come fa spesso, sui palcoscenici del teatro minore. Ma vorrei provare a spiegare perché avevo gli occhi lucidi.
Daniel Blake è un semplice carpentiere. Ha perso la moglie, pazza, dopo averla a lungo assistita. Non può lavorare a causa di un infarto. In seguito a un allucinante colloquio che non vediamo, ma ascoltiamo mentre scorrono i titoli di testa, gli viene negato il sussidio e ha inizio la sua odissea nel sistema assistenziale riformato, come dice un personaggio minore, “dagli stronzetti snob di Eton che governano L’Inghilterra”. Nelle sue peregrinazioni tra un ufficio e l’altro, alle prese con una burocrazia incapace di umanità e computer che non sa usare, incontra Katie con i suoi due bambini. Insieme combatteranno la loro battaglia per sopravvivere. Affronteranno esperienze umilianti – indimenticabile la scena nella banca degli alimenti, con Katie affamata che apre di nascosto una scatoletta e la mangia in piedi – e vivranno momenti intensi di solidarietà e affetto. Qualcuno li aiuterà, altri li respingeranno, e lui sarà anche protagonista di un gesto ribelle, presto rientrato per l’intervento della polizia, ma gioiosamente accolto dai passanti.
La dignità, anche sull’orlo del precipizio, è l’unica cosa che il sistema non riuscirà a portare via a Daniel Blake. Una dignità che nasce dalla serena consapevolezza di essere un cittadino del suo paese, che ha dei diritti perché per tutta la vita ha scrupolosamente assolto ai suoi doveri.
E’ un uomo giusto, Daniel Blake, che costruisce una libreria per libri che ancora non ci sono, ma simboleggiano la speranza di Katie in una vita migliore. E’ una donna giusta Katie, che piange quando si rompe una piastrella del bagno che sta pulendo perché sua figlia possa finalmente lavarsi. Ed è per questo che le ingiustizie piccole e grandi di cui sono vittime fanno male e diventano quasi insopportabili. Come la voce registrata che per lunghi minuti, in una delle scene iniziali, invita Daniel ad attendere in linea per parlare con un operatore dei servizi sociali.
“Io, Daniel Blake” è il film militante di un regista figlio di operai che ha dedicato tutta la sua vita a raccontare storie di proletari, diseredati e ribelli. Ma del film militante non ha i difetti. Non è a tesi, non è didascalico, non è enfatico. E’ soltanto, e semplicemente, un’opera straordinaria, un pugno nello stomaco sferrato con delicatezza, come soltanto i grandi registi sanno fare. Grazie Ken.