Con il 50,24% dei voti, contro il 49.78 la Colombia dice “No” al referendum sull’accordo di pace tra governo centrale e Forze armate rivoluzionarie della Colombia. Ma Presidente e FARC rassicurano: il cessate il fuoco è bilaterale.
Bogotá – 52 anni di conflitto, 4 anni di negoziati, 260mila morti, 45mila desaparecidos, 7 milioni di sfollati e un accordo – firmato a Cartagena, il 26 settembre scorso – che lasciava tanto amaro in bocca, ma permetteva intravedere un futuro prossimo di normalizzazione. Smobilitazione, consegna delle armi, amnistia – pur se non per i peggiori crimini, quali massacri, torture e stupri – e la possibilità di far parte della vita politica del Paese. 600 kg di esplosivo consegnati nelle scorse settimane dai guerriglieri alle Nazioni Unite per essere distrutti, 180 giorni di tempo per rimettere gli asset finanziari e patrimoniali dell’organizzazione al fine di risarcire i familiari delle vittime del conflitto, ma anche la possibilità di partecipare alle elezioni presidenziali e legislative del 2018, e la garanzia di dieci seggi non elettivi – con diritto di parola ma non di voto – fino al 2026 ai membri delle FARC: questi ultimi in particolare i termine dell’accordo più avversati che hanno dato mano libera all’ex presidente Uribe, leader del fronte del No: “La pace è qualcosa di emozionante – aveva affermato – ma gli accordi raggiunti all’Avana sono deludenti. Vogliamo anche la pace, ma con standard più elevati di giustizia e di verità”. Dopo la battuta d’arresto alle politiche del 2014 e alle regionali e municipali del 2015 – e impossibilitato dalla Costituzione a correre per un nuovo mandato alla guida del Paese – Alvaro Uribe, cavalcando paure ed incertezze, è riuscito a riemergere assestando un duro colpo alla presidenza di Juan Manuel Santos. Il referendum non era necessario ma Santos l’ha voluto quasi per chiedere alla popolazione di partecipare alla ratifica di un accordo storico. “Io non mi arrendo, continuerò a cercare la pace fino all’ultimo minuto del mio mandato”, ha dichiarato. Per ora non ci sono Piani B, ma Santos e Rodrigo Londoño Timochenko, leader delle FARC fanno dichiarato di non voler tornare a sentire il suono delle armi. Il 26 agosto è entrato in vigore il cessate il fuoco permanente e speriamo sia definitivo.
La settimana scorsa i sondaggi davano il sì in vantaggio tra il 55 e il 66% dei voti, ma l’astensionismo l’ha fatta da padrone, il 62% della popolazione non si è recata votare: ad influire il mal tempo, l’uragano Matthew e le paure di chi in questi anni di negoziati non ha mai creduto nella possibilità di arrivare alla pace. Sorprendentemente i “Sì” hanno prevalso soprattutto laddove gli effetti della guerra si sono sentiti maggiormente, mentre nelle grandi aree urbane e nei villaggi rurali, dove la guerra da tempo non è più avvertita come un problema reale, hanno invece prevalso i “No”. A Toribío – cittadina di 26mila abitanti nella provincia del Cauca, che è stata attaccata e depredata più di 600 volte – l’85% dei votanti si è espressa per il Sì. Meglio una pace imperfetta che gli orrori della guerra.
In un clima di spaccatura nazionale il quesito referendario, forse troppo semplicistico è stato avvertito come una provocazione: ‹‹Sostiene l’accordo finale per terminare il conflitto e la costruzione di una pace stabile e permanente?». L’amnistia e la possibilità di trasformando un’organizzazione paramilitare in un partito non era accettabile, eppure è l’unica strada ovunque praticabile e praticata per auspicare la normalizzazione.
Tra le richieste per la conclusione dei negoziati, le Farc hanno preteso una piccola riforma agraria: contro l’oligarchia latifondista che con e senza l’ausilio dei paramilitari si è impossessata dei terreni abbandonati dalla popolazione in fuga, hanno chiesto la restituzione degli stessi agli antichi proprietari o i loro eredi.