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Dario Fo: una vita di amore, teatro e libertà

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Tra un sorriso e una smorfia. Un sorriso per chi ascolta e una smorfia dissacrante nei confronti del potere. Dario Fo è l’immagine della satira graffiante e della cultura che si fa militante, non di questo o quel partito, ma di un’idea di mondo che parte dal popolo e si eleva a libertà. Lui e Franca Rame sono stati il simbolo di chi non ha mai rinunciato a tale libertà, quella delle proprie visioni della società e quella del loro teatro, della loro narrazione. Dario Fo aveva urlato un ciao che aveva spezzato l’aria, quando Milano si era riunita per dire addio alla sua compagna di sempre. Oggi quel ciao risuona più forte, perché se n’è andato anche lui, ultimo testimone di quella che è una storia unica, una coppia unica.

In tanti piangono, qualcuno ha preferito sorridere per regalargli quel movimento delle labbra che allarga il viso e che è una firma nella vita del maestro. A parte qualche squallida eccezione di “uomini senza idee”, la gran parte delle istituzioni, rappresentazioni di quel potere ostile a cui si ribellava, lo hanno salutato, hanno parlato di grande perdita. E grande perdita lo è davvero. Ma lo è soltanto per coloro i quali considerano la cultura esercizio di liberazione, di autonomia, movimento di teste che non sono propense a ondeggiare verso il basso per un ripetuto e meccanico sì. Per chi a Fo e Rame non ha mai concesso nulla, per chi li ha avversati vigliaccamente, a Milano come nel resto del Paese, è soltanto l’ennesima occasione di retorica.

Ha ragione, pertanto, Moni Ovadia ad auspicare il silenzio di politici e istituzioni, invitandoli ad abbassare la testa con un atto di modestia. Per una volta. Perché Dario Fo e sua moglie sono stati osteggiati e maltrattati per la loro indipendenza. Per non essersi mai piegati, per essere stati irriverenti verso il potere, pagando sempre in prima persona. L’ostracismo della Rai, lo stupro politico di Franca, l’ostilità di quella parte di burocrati del PCI che le critiche proprio non le sapevano accettare. La vita teatrale del duo Fo-Rame si è sempre intrecciata con la storia di questo Paese e con le turbolenze che la attraversavano.

Si sono esposti e le loro posizioni quasi mai sono state capite, accettate o sostenute da chi ha sempre vissuto e creduto nel conformismo, nella formale veste della conservazione, nella ruvida e spietata maniera dell’esclusione. Dario Fo non c’è più e uno dei suoi ultimi interventi sull’attualità lo aveva dedicato al referendum, al suo No, al pericolo di un eccesso di maggioranza e al conseguente rischio di una deriva autoritaria. Oggi, anche una parte degli avversari, quelli dei fronti opposti, gli rendono omaggio. All’attore, al Nobel, all’uomo di teatro. Qualcuno invece, più o meno timidamente, abbozza una linea di demarcazione netta tra la sua arte e le sue idee, respingendo il Fo più “politico”, accusato anche di essere populista (accusa alla quale rispose con grande sapienza).

Il Fo “politico” insomma continua a dar fastidio, semplicemente perché siamo abituati a non leggere bene nella storia e nelle idee di un uomo, né a comprenderne le scelte senza votarci al costume dell’insulto. È vero che Fo ha pubblicamente e attivamente sostenuto il Movimento Cinque Stelle, appoggiando Grillo e Casaleggio e il loro movimento di popolo. Personalmente, nemmeno io condividevo la sua posizione, trovavo troppo romantica la sua visione del fenomeno Grillo, ma ne comprendevo l’origine. La sua adesione, infatti, era sincera e coerente con la sua idea dell’azione politica, attratta da quegli elementi di spinta etica e popolare che, almeno in teoria, soprattutto all’inizio, apparivano intrinsechi al DNA del movimento.

Non era un’adesione ottusa. Tanto è vero che il premio Nobel aveva anche espresso qualche critica sulla recente litigiosità dei grillini, soprattutto a Roma, auspicando un azzeramento, un ritorno alle origini, proprio perché la logica che lui sposava era quella di una forza spontanea e autogestita, internamente democratica e non segnata da correnti in guerra che tanto somigliano alle fisionomie di un partito tradizionale. Sarebbe stupido pertanto etichettare un uomo popolare come lui dentro un’appartenenza qualsiasi. Per questo, pur non condividendo la sua posizione, ho sempre rispettato la sua idea. E ho trovato blasfemo chi, su questo punto, ha attaccato Fo con una volgarità tutta italiana, acida, illiberale.

C’è chi ha dubitato perfino della sua storia e della sua libertà, chi ha tirato fuori la vicenda giovanile della Repubblica Sociale Italiana (che peraltro Fo aveva chiarito da tempo), chi ha persino parlato di demenza senile. Una bestemmia. Il senso di un problema culturale italiano e di una logica becera che fa sì che un uomo vicino ai novant’anni, con una storia di militanza civile anti-sistema e con una cultura che farebbe sfigurare il 99% dei suoi detrattori, prende posizione razionalmente e coerentemente con la propria concezione della politica, viene tout court considerato rincoglionito. E non gli si riconoscono nemmeno l’intelligenza e la consapevolezza di una scelta, solo perché diversa dalla nostra. Da lì poi si parte in un percorso a ritroso, fino a mettere le mani nella sua storia personale (oggettivamente inattaccabile e rispettabile), con l’intento vano di distruggerla, macchiarla, minimizzarla.

Oggi restano solo le parole di commiato, ricordi dolci, memorie rispettose e, purtroppo, anche parecchia ipocrisia lì in alto. La solita. Quella che riesce sempre a rompere un silenzio che sarebbe ben più decoroso. Pazienza. È l’Italia, è il mondo che non imparerà mai. E a quel mondo, il bel faccione di Dario Fo, di quel geniale giullare con il dolcevita al collo, avrebbe contrapposto una smorfia, una sonora risata, una battuta esilarante e irresistibile. Chissà che non lo stia facendo anche adesso, da qualche teatro lontano del quale ha già conquistato il palco. Insieme alla sua Franca.


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