Come si scrive di elezioni? Come si scrive di elezioni americane? Naturalmente non esiste una risposta univoca. Forse non esiste proprio una risposta. Eppure qualche considerazione, prendendo a modello la stampa italiana e quella americana di ieri e di oggi, vale la pena farla. Alla Festa del Cinema di Roma è stato appena riproposto un documentario memorabile:“Primary”, di Robert Drew.
Era il 1960, l’anno in cui giungeva alle Primarie un giovane senatore semisconosciuto, John Fitzgerald Kennedy. Robert Drew gli chiese di attuare una piccola rivoluzione: permettere a lui e ad alcuni suoi bravissimi collaboratori, con cui fonderà la Drew Associates, di seguirlo passo passo nello scontro in Wisconsin contro un altro Senatore democratico, Hubert Humphrey, il quale a sua volta acconsente all’esperimento.
Nasce così il cinema verità negli Stati Uniti, nasce ungiornalismo televisivo diverso, legato forse meno all’informazione, ma più al feeling e alla realtà. In quel documentario non ci sono interviste a Kennedy ed Humphrey, non domande ad esperti ( le talking heads) e neppure lunghi speech a commentare.
Ci sono i due candidati nella loro normalità, nelle loro diversità. Nei momenti di riposo, nell’incontro con gli elettori, nelle pose naturali, tecnico e populista Humphrey, a suo agio tra i contadini del Wisconsin che sa di poter bene rappresentare a Washington; già da quelle prime battute carismatico e visionario Kennedy, che nuota meglio tra le folle cittadine e guarda lontano, al destino dell’America sentinella del mondo. Da allora è passato più di mezzo secolo, il mondo è cambiato. Il modo americano di fare giornalismo è però cambiato poco. Lo stile anglosassone ancora impera dall’altra parte dell’Oceano. Anche se quest’anno la forte peculiarità del candidato repubblicano, Donald Trump, ha spinto alcune testate tradizionalmente obiettive e distaccate a schierarsi, a prendere posizione, a lanciarsi in “endorsement”, nell’appoggio ufficiale alla candidata democratica Hillary Clinton. Ma è una tendenza come dicevo molto più legata alla personalità aggressiva di Trump che ad un vero mutamento di costume.
Insomma, media e giornali americani, almeno nella loro maggioranza, continuano ad informare e, nei limiti del possibile, a separare fatti ed opinioni. Al contrario, come tutti coloro che vivono in Italia possono constatare senza sforzo, il nostro modo di fare giornalismo si è fortemente indirizzato verso il giudizio, la partigianeria senza confini, le prese di posizioni radicali, prive di mediazioni e spesso prive di senso e di costrutto.
Ed ecco allora che potrebbe tornare utile, per molti, per coloro che volessero tentare di ritrovare un minimo di armonia e credibilità nel raccontare le elezioni di un paese diverso dal nostro, così conosciuto ma sempre lontano e straniero, il buon esempio di Primary.
Abbassare cioè al massimo i toni del proprio ego teso a credere o immaginare di capire tutto delle dinamiche degli Stati Uniti.
Seguire da vicino eventi e persone. Non lanciarsi in valutazioni affrettate e non richieste. Parlare, se si è sul posto, con la gente, con gli americani. Seguire dal vivo le televisioni, leggere i giornali locali.
Capire, tastare il polso. Guardare.
Mi rendo conto che sembrano banalità. Eppure quanti di noi, abituati ormai ad avere il mondo a portata di mano sul computer, si sono presi la briga ad esempio di registrare i faccia a faccia tra Hillary e Donald e se li sono poi riguardati nella loro interezza, per imparare a conoscere davvero i due sfidanti? Una regola non scritta ma facile da ricavare è che maggiori sono gli eventi, minore il bisogno di inventare. E allora, forse, lo stile da usare è proprio quello di osservare e raccontare.
L’America è un Paese grande ed ancora, per quanto se ne dica, accogliente.
Chi può, vada a vedere da vicino questa America di Clinton e di Trump. Per capire e far capire davvero perché avrà prevalso alla fine Trump o Clinton.
Chi ce la fa, abbandoni stereotipi e schemi precostituiti. Allontani le tentazioni micidiali da social. E riscopra la bellezza di raccontare un evento con le proprie parole. O, meglio ancora,descrivendo e facendo parlare i protagonisti dell’informazione. In questo caso un intero Paese, che con tutte le sue contraddizioni, dopo il primo Presidente nero, potrebbe eleggere la prima Presidentessa donna della sua storia. Ma questo, saranno le cronache dell’Election day a dircelo presto.
*Paolo Aleotti per 10 anni è stato corrispondente Rai in USA, ex Curatore di Che Tempo Che Fa (rai3). Insegna giornalismo radiofonico alla Fondazione Basso e dirige da 4 anni un laboratorio di documentari audiovisivi nel Carcere di Bollate
Fonte: “Premio Roberto Morrione”