Colombia, un paese smarrito

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Opposti interessi e principi contrastanti azzoppano la Colombia a metà del guado, tra guerra e pace. E’ l’ultima imboscata che il paese fa a se stesso e potrebbe uscirne peggio che tramortito. Al momento, nessuno corre a riprendere le armi, preparandosi di nuovo a far fuoco. Confusamente, il baratro verso cui stanno scivolando viene avvertito da molti. Ma tutti già sembrano cercare un riparo, guardandosi attorno allarmati e smarriti: stato e semplici cittadini, prodi e codardi, vittime e carnefici. Numeri ufficiali e quindi definitivi ancora non ci sono. Ma sia pure di scarsissima misura, nel referendum popolare incautamente previsto dagli accordi, il rifiuto del trattato di pace tra governo e guerriglia delle FARC prevale sull’approvazione, rancori e diffidenza su generosità e speranza.

Comunque la spaccatura tra quanti credono nella pace e coloro i quali non temono la guerra diventa una realtà concreta e gravida d’incognite, tutte distruttive. Dimezzata è anche la sorpresa, poiché i timori che il referendum potesse bocciare l’accordo erano forti, diffusi e manifesti; ma infine più o meno inconsapevolmente rimossi tanto dal governo quanto dalle FARC. Queste e quello decisi a liberarsi con un gesto di audace buona volontà dal groviglio di contraddizioni che da ben oltre mezzo secolo (di fatto quasi settant’anni) soffocano il paese in una morsa perversa di stragi, lutti e devastazioni. Un ottimismo sostenuto attivamente dalle Nazioni Unite e dal Vaticano, dalla Casa Bianca, dall’Unione Europea e dall’intero Sudamerica, ora altrettanto sconcertati.

L’analisi ancora sommaria del voto offre nondimeno un’immagine chiara della geografia politica della Colombia, dei suoi sentimenti e dei suoi interessi, inclusi quelli meno limpidi. L’astensione è il primo dato rilevante: dei 42 milioni di colombiani, alle urne si è presentato meno del 40 per cento degli aventi diritto. Proporzionalmente, a dispetto delle maggiori difficoltà di comunicazioni e trasporti, le zone rurali hanno fatto registrare un afflusso maggiore di quelle urbane. A Bogotà, la capitale, Cali e Barranquilla hanno prevalso con decisa maggioranza i SI; gli altri maggiori centri urbani -Medellin, Bucaramanga, Cucuta, Pereira- hanno invece preferito il NO. Significativo è che nel complesso abbiano approvato l’accordo le provincie che più hanno sofferto la guerra, respinto invece da quelle più lontane. La solidarietà non ha prevalso.

La brutalità che nel tempo ha corrotto le iniziali ragioni ideali della guerriglia, trascinandola a crimini spesso non meno orrendi di quelli delle milizie private dei latifondisti e dei grandi allevatori, della delinquenza comune, dei narcotrafficanti e dello stesso esercito regolare, ha indotto molte coscienze a rifiutare un’intesa che promette di indennizzare tutti senza però punire davvero nessuno. Il presidente Santos non è riuscito a spiegare che questa era la via obbligata della pace, l’unica percorribile in Colombia e ovunque nella storia dei conflitti umani. La rinuncia al castigo giudiziario (si chiama internazionalmente giustizia transizionale) per tutti i colpevoli è la condizione per ottenere la verità su ogni delitto compiuto. Dunque la premessa ineludibile per una resurrezione dello spirito comune, di una moralità condivisa.

Vuol pur dire (ci dice) qualcosa che le vittime dirette e personali siano le più aperte alla comprensione e al perdono. E’ gente che ha avuto figli, coniugi, genitori sequestrati, assassinati, fatti a pezzi dopo essere stati depredati; milioni di donne, uomini, bambini d’ogni età costretti ad abbandonare i propri beni (spesso appena un tetto, un campetto di mais e una mucca pelle e ossa) e fuggire lontano, lasciando una povertà antica per la nuova miseria degli agglomerati suburbani. Dal fondo senza fine del sacrificio e del dolore, queste persone dichiarano di comprendere il valore incommensurabile della pace, in nome della quale hanno estinto ogni desiderio di vendetta e anche di umanissima rivalsa.

A cantare apertamente vittoria in nome di una pace “più giusta” è solo l’ex Presidente Alvaro Uribe, da sempre avversario dichiarato dell’accordo, che straccia ogni Vangelo per celebrare un unico credo: “occhio per occhio, dente per dente…”. Ma dietro di lui e la sua etica da Vecchio Testamento, con discrezione o in un silenzio clandestino, muovono altri e ben concreti interessi a prima vista in contrasto ma a ben vedere convergenti. Senza l’accordo di Cartagena il paese resta in stato di belligeranza, anche nel caso in cui nessuno torni immediatamente a sparare. La politica che non vuol cambiare niente, lasciare il Congresso, la proprietà fondiaria e il sistema finanziario in mano all’oligarchia di sempre, costituisce un blocco con tutta evidenza poderoso.

I narcos, i signori della droga in Colombia e nel mondo, dai miserabili dealer di quartiere ai finanzieri che riciclano i loro miliardi, per quanto temano la complicità delle FARC non meno della loro concorrenza, sanno bene che la pace concentrerebbe su di loro la capacità di repressione dello stato. Altrettanto hanno ragione di temere i gruppi armati minori che a cominciare dall’ELN non hanno disarmato e resterebbero da soli in prima linea. Così come il brigantaggio di strada, protagonista di crimini minori per quantità ma non certo in ferocia. Non era un mistero che lo  stesso apparato militare e l’industria legata agli armamenti, temessero di vedere ridotti i rispettivi  budget di spesa e influenze politiche.

Dei milioni di ettari divenuti in mezzo secolo campi di battaglia e abbandonati dai profughi, si sono via via appropriati in buona misura latifondisti e grandi allevatori. Le guerriglie non sono mai state in condizione di mantenerne stabilmente il controllo. L’accordo di pace prevede che tornino in possesso dei legittimi sebbene ormai antichi proprietari. E’ un capitolo della sia pur limitata riforma agraria ottenuta nel corso della trattativa dalle FARC. Tante convenienze materiali sono rilevanti e pesano nei comportamenti personali e collettivi ben di più della preoccupazione espressa dall’ex Presidente Uribe e dal suo partito per quei 5 esponenti delle FARC che con facoltà di parola ma senza diritto di voto, l’applicazione dell’accordo porterebbe a sedere tra i 268 senatori e deputati del Congresso di Bogotà.

 


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