Terremoto, i troppi sciacalli dell’informazione

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La polvere s’alza, s’abbassa, danza su se stessa e veste di bianco la morte che cinge d’assedio il centro storico. Amatrice è sventrata, scoperta, nuda e nuda s’offre così ai primi scatti. Sono le 7.30 quando volto la curva e trovo l’orrore. Sono giornalista ma sono amatriciano. Lo era il mio trisnonno, lo è il mio sangue e quella è casa mia. Sono giornalista. Ma alle 7.30 del 24 agosto 2016 io sono solamente amatriciano. Alle 5 mi chiama mio padre. Roma è già sveglia. Mezz’ora dopo sono già per strada. Sulla Salaria ci riconosciamo dall’andatura. È spedita, a tratti esagerata, è un’eccezione drastica alla regola, ai codici, alle leggi, perché le leggi dell’uomo oggi, stavolta, vengono dopo le leggi della natura.

Una tappa, una sola: Rieti. Per fare la spesa, per portare i primi aiuti alimentari, per portare i primi soccorsi. La devastazione s’avvicina, bussa alle porte del capoluogo della Sabina sotto forma di onde radio: danni e distruzione, questo sentiamo in modulazione di frequenza. Ci dividiamo io e la mia compagna, giornalista come me e amatriciana d’adozione ma forse più amatriciana di me. Io prendo i soldi al bancomat e faccio il pieno, la mia lei corre al supermercato. Prima cliente, primissima. L’ex vicesindaco è un carabiniere. Lo chiamo, è un amico fraterno. Pie’, Pie’ me senti?, ma come stai? Mi risponde. Sta scavando, sta estraendo dalle macerie la sua gente, e non c’è altro tempo perché il tempo s’è fermato, s’è interrotto alle 3.36. Alla prima scossa è venuto giù il mondo, e anche il Paradiso. Non c’è più Dio nelle parole di Piergiuseppe. Basta, stop, montiamo in macchina e divoriamo l’asfalto.

Il ponte dopo l’uscita per Amatrice. Ci sarò passato sopra un milione di volte. Non m’ero mai reso conto che anche lui potesse essere così fragile, così indifeso. È inagibile. La polizia ci fa lasciare l’auto lungo la provinciale. Prendiamo i sacchi della spesa, li consegniamo alla Protezione Civile e ci imbarchiamo su una navetta Cotral per atterrare su un paesaggio lunare. Sul pullman la gente resta in silenzio. È un silenzio pesante, rumoroso, è il silenzio dei volontari.

Indosso scarpe da passeggio. Sono di colore blu. Anzi, lo erano. Le conservo gelosamente, adesso. Non le calzerò mai più. Percorriamo a piedi gli ultimi tratti di asfalto che ci separano da quella che oggi è la zona rossa di Amatrice. Scogli di roccia tracimano sulla strada. Alzo gli occhi al cielo: gli archi delle antiche mura sono stati quasi tutti spazzati via dalle prime onde d’urto. L’armageddon è alle porte, l’ospedale Grifoni è il suo biglietto da visita. Crepe, muri franati, i degenti sono stati portati fuori dal personale paramedico.  “Mi raccomando, stai attenta, vedrai che ci saranno altre scosse e altri crolli. Pronta a scattare”. Questo dice un fotografo alla sua collega. Lei annuisce. Eppure non è finita. Anzi, è appena l’inizio.

Superato il supermercato e quel che resta del negozio che fino a qualche tempo fa vendeva dei quad, di colpo mi si parano di fronte i monti della Laga. Non dovrei vederli, in teoria. Non dovrei vederli, la loro visuale dovrebbe essere occlusa, celata dalle prime abitazioni. Ma le abitazioni non ci sono più. Affretto il passo, non ho bisogno di altre informazioni per comprendere la portata della tragedia e non sono nemmeno sicuro che il mio cuore sia pronto a riceverle. Ormai s’agisce d’impeto, s’improvvisa, si fa quel che si può. Volto l’angolo. Corso Umberto I non c’è più, Amatrice non c’è più. Ho con me dei guanti gialli, guanti da cucina. La mia compagna mi presta un maglioncino. Lo uso come foulard, mi copro la bocca, avverto in gola l’odore dei calcinacci. Salgo sui primi cumuli di mattoni, mi arrampico sui solai crollati, attraverso la vita delle persone usando porte e persiane come passerelle.

Non so che ore siano, per me il tempo non ha più valore. Accanto mi ritrovo un maresciallo dei carabinieri. Scava a mani nude. Poi chiama a sé l’appuntato. “Vie’ qua, dammi ‘sto cestello, mettice la pistola, ché mi dà fastidio”. Un eroe minore che rifiuta le copertine, che è rimasto anonimo tra le pieghe del terremoto, uno dei tanti salvatori sconosciuti ai quali i sopravvissuti resteranno grati per sempre.

Le squadre di soccorso non hanno nome, non hanno gradi, non fanno distinzione tra civili, forze dell’ordine, Croce Rossa e uomini della Protezione Civile. C’è una sola categoria di esseri viventi che si tira fuori dalla tragedia. È la mia. È quella dei giornalisti. Mentre sui cumuli di morte inseguiamo la vita con pale, picconi e casse della frutta per portare via i materiali, loro restano impalati ai piedi della pietà. Non si sporcano. Hanno i taccuini, prendono appunti. “Immortala quel crollo, è più fotogenico”. Il diritto di informare sorpassa quello di esistere e gli mostra il dito medio. È uno spaccato di verità, è il mio punto di vista, è il punto di vista di chi in quel momento ha fatto una scelta precisa. Una scelta ovvia, per la propria terra. Gli italiani, il mondo intero, hanno diritto di sapere, di vedere, di ascoltare. Ma questo diritto andrebbe esercitato con accortezza, con pudore, con rispetto. Sentimenti che all’alba del sisma ad Amatrice non sono stati provati da tutti.

Esiste poi un altro giornalismo. Non più quello che va a caccia di lutti, ma quello dei cani da guardia della democrazia che a volte – non sempre – si travestono da sciacalli. Anzi, forse è meglio usare maggiore finezza: che si travestono da giudici prima ancora che i giudici indossino la toga. È il giornalismo che non guarda in faccia nessuno. Che tratta il sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi e il suo vice Gianluca Carloni come assassini del loro popolo. Che li sbatte in prima pagina come i nuovi mostri. Che ignora come sia stato Pirozzi con la sua Giunta a salvare l’ospedale Grifoni dalla sua trasformazione in una struttura per lungodegenti chiamata “Casa della Salute”. Lungodegenti. Niente più pronto soccorso. E in caso di terremoto che si fa? È stato anche così, con questo interrogativo, che Sergio Pirozzi è riuscito a convincere la Regione a fermarsi, a tornare indietro sui propri passi. È il giornalismo giustizialista che non sa come sia stato Pirozzi a lottare per dotare Amatrice di un’elisuperficie rivelatasi indispensabile per i soccorsi e a sbloccare i lavori ANAS sulla Salaria, dove fino ai primi di agosto si procedeva a senso alternato. Chiudete gli occhi. Immaginate i mezzi di emergenza che si incastrano per le gole di Antrodoco, che fanno a turno per passare mentre la gente è sepolta sotto metri cubi di cemento. È il giornalismo dei processi facili che tenta di fare informazione senza essere informato, che è venuto ad Amatrice e ha domandato se l’Amatriciana venisse da lì.

La stampa si chiede come sia possibile che la gente di quella terra consideri il suo Sindaco un leader dopo il crollo di una scuola. Crollo per il quale la magistratura – e solo la magistratura -dovrà accertare se esistono, e di chi sono, le responsabilità. Per rispondere sarebbe stato sufficiente andare su Google. Per conoscere il passato di Sergio Pirozzi sarebbe bastato informarsi, per chi deve fare informazione. Ma non c’era tempo. C’erano i crolli fotogenici da riprendere per primi.


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