Prevedibile e giustificata soddisfazione per il voto conclusivo del Senato sulla riforma dell’editoria. Penultimo atto. Pressoché unanime è stata la decisione sul tetto posto agli stipendi degli amministratori, dei dipendenti e dei consulenti della Rai, comunque la bellezza di 240.000 euro. In verità, simile limite avrebbe forse già dovuto essere in vigore, sulla base della normativa e delle stesse delibere aziendali.
Tuttavia, la legge si “interpreta”. Comunque, ben venga un po’ di moralizzazione, con la speranza che pure il settore privato possa venirne contagiato. E sì, perché lo stacco rispetto al resto del mondo è clamoroso. Il sottotesto dell’articolato passato riguarda la doverosa salvezza di un settore della carta stampata e dell’emittenza almeno in parte non baciato dai favori del mercato, popolato spesso di precari o di occupati pure stabili ma con stipendi e salari dove Cristo si è proprio fermato.
Un passo avanti, pur piccolo e fragile. Qualche certezza è stata data alle aziende partecipano al Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione: più cospicuo l’acconto previsto sul finanziamento, corrette alcune stranezze dell’iter precedente quanto a rapporto tra venduto e distribuito per non penalizzare troppo i giornali di opinione di carattere nazionale, eliminata la paradossale confusione tra testate locali e nazionali. Parliamo di successi ancora più simbolici che reali, essendo l’economia effettiva del comparto legata a circostanze future.
Si scrive di una quota del canone Rai, di un prelievo di solidarietà a carico di concessionarie di pubblicità. Già, ma un simile contributo fu immaginato tanti anni fa, quando spot e inserzioni furoreggiavano. Ora la scelta davvero coraggiosa sarebbe quella di una “tassa di scopo” a carico dei nuovi padroni della società dell’informazione, da Google e Facebook in poi. Del resto, quando i testi richiedono anni di incubazione (e qui il bicameralismo proprio non ha colpe, anzi) arrivano all’ora X ingialliti e depotenziati. Non solo. Qui c’è tutta la filosofia dominante: deleghe a go go. Infatti, del progetto in discussione, una volta approvato definitivamente, entra in vigore ben poco. Il resto è rimesso a procedure che rischiano di sfuggire al controllo del parlamento, senza trasparenza verso le categorie professionali o le stesse organizzazioni sindacali.
Comunque, meglio di niente, in questo clima così sgradevole e omologato. Ci si attende adesso una scelta netta e non equivoca da parte del Governo sulla consistenza per l’anno in corso del Fondo. Altrimenti i giornali arrivati in vista del traguardo-decimati e indeboliti- rischiano di chiudere mentre i commentatori festeggiano. Ugualmente, è augurabile che il messaggio riformatore giunga ai tavoli dei rinnovi contrattuali, fermi e affannati dal tempo analogico.
Il punto che riguarda l’Ordine dei giornalisti ha suscitato discussione, ma va visto come avvio di un ripensamento operoso dei caratteri di un affascinante “mestiere” da salvaguardare in corsa e con l’occhio alle generazioni digitali. La legge in vigore risale al 1963, quando c’erano i Beatles. Si tratta di un nodo cruciale per dipanare anche le ambiguità della furiosa stagione tecnologica, che richiede di essere compresa ma ci interpella sulle tutele e sui diritti necessari per evitare schiavitù moderne.
Se si scorrono gli articoli e i commi risaltano – con gli aspetti positivi – numerose e gravi omissioni: sulle concentrazioni in crescita esponenziale, sull’indipendenza delle imprese editoriali, sui tagli e le morie precoci.