Nell’accingermi a scrivere quest’analisi, mi torna in mente un aneddoto narrato da Marco Damilano, vicedirettore dell’Espresso, a noi ragazzi della Scuola di Politiche fondata da Enrico Letta e intitolata a Beniamino Andreatta, durante la Summer School della scorsa settimana a Cesenatico. Ha raccontato Damilano che in seguito al crollo del Muro di Berlino, Mino Martinazzoli, ultimo segretario della DC negli anni tragici di Tangentopoli, abbia asserito: “Abbiamo passato la vita a combattere contro coloro per i quali la politica era tutto; d’ora in poi dovremo batterci contro coloro per i quali è niente”. È superfluo sottolineare che la prima affermazione fosse riferita agli esponenti del PCI e la seconda a Berlusconi. Due parametri interessanti per definire il ventennio appena trascorso e delinearne i contorni. Come è noto, infatti, gli opposti tendono spesso ad attrarsi e le apparenti contraddizioni ad avvicinarsi fino a stringere un rapporto quasi simbiotico, reso ancor più saldo dal fatto che il tutto e il niente sono due concetti talmente assoluti e apodittici da risultare spesso intercambiabili.
Perché quando a confrontarsi è chi si crede il tutto, il depositario di ogni virtù e di ogni verità, da una parte, e chi da esso è considerato un nulla, un “komunista” vetusto e da mandare a casa su un versante e un fascista, palazzinaro arricchito e moralmente indegno dall’altra, ecco che abbiamo lo scontro sangue e arena che è andato in scena nella politica italiana da dopo Tangentopoli in poi, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di chiunque.
Ora, tralasciando l’anomalia berlusconiana e i guasti che essa ha arrecato al Paese e tralasciando anche l’opposizione risibile che ha subito ad opera di gran parte di una sinistra sempre meno di sinistra, in grado di disprezzarlo, talvolta pure facendo finta e recitando a meraviglia la propria parte, ma non di costruire una valida alternativa al suo modello di società e di sviluppo, tralasciando tutto ciò, è chiaro che quando a confrontarsi sono due opposti estremismi, l’uno più deleterio dell’altro, il risultato non possa che essere uno scontro violento e volgare dal quale si esce tutti sconfitti e con un senso di nausea che è alla base del disgusto che molti cittadini provano attualmente nei confronti della politica. E una delle cause di questa deriva, va detto, è da ricercarsi nel sistema elettorale col quale si vota a partire dal ’94, ossia il maggioritario.
Il maggioritario, anche quando assume le sembianze costituzionalmente impeccabili e democraticamente inattaccabili del Mattarellum, concepito dall’odierno inquilino del Quirinale, è sempre e comunque sbagliato. È sbagliato, in quanto finisce col sacrificare inevitabilmente la rappresentanza sull’altare di una governabilità artefatta e, per questo, illusoria, come si evince dai ben tredici governi succedutisi in questi ventidue anni, con una media di più di due governi per legislatura, visto che in ventidue anni si è votato sei volte, ossia, mediamente, ogni tre anni e otto mesi, contro i quattro anni della vituperata Prima Repubblica, con le sue undici legislature e la sua cinquantina di governi che, in alcuni casi, erano poco più che rimpasti.
Senza contare altre fole che ci sono state ammannite in questo ventennio: le preferenze sono il male assoluto, infatti da quando sono state eliminate abbiamo assistito a un netto peggioramento della qualità della classe dirigente, con un rapido incremento dei casi di malaffare e dei politici indagati, condannati o arrestati per tangenti, accordi con la criminalità organizzata, appalti truccati e via elencando; con il maggioritario si avrà più stabilità, infatti si vota ancora di più e i governi, oltre ad essere più instabili, sono complessivamente anche meno produttivi, più arroganti e più prepotenti; si procederà spediti verso una sana democrazia dell’alternanza, infatti oggi siamo prossimi alla paralisi, in quanto i poli sono diventati tre e qualunque legge elettorale di stampo maggioritario costituisce un atto di violenza nei confronti di chi dovesse essere messo fuori gioco da un artificio numerico, e potremmo andare avanti ancora a lungo, se non fosse che questi tre esempi bastano e avanzano per seppellire una volta per tutte la mitologia del maggioritario che ormai, con ogni evidenza, ha fatto il proprio tempo.
La realtà è un’altra: crollato il Muro di Berlino, una sinistra priva di qualunque visione e scoperta sul piano delle coperture internazionali ha pensato bene di provare a rifarsi una verginità travestendosi da ciò che non avrebbe mai dovuto essere, ossia il braccio esecutivo del liberismo arrembante e di un sistema finanziario mondiale che ha prodotto unicamente diseguaglianze, miseria, disparità d’occasioni e un aumento esponenziale del divario fra ricchi e poveri, tanto che, stando ai recenti dati Oxfam, oggi le 62 persone più ricche del pianeta possiedono lo stesso patrimonio dei 3 miliardi e 600 milioni di dannati della Terra, costretti a vivere con meno di due dollari al giorno.
La realtà è che quella stessa sinistra, talvolta anche in buona fede, si è inventata la favola autoconsolatoria del capitalismo buono e del liberismo gentile, mandando a ramengo i pochi princìpi liberali e illuministi ereditati dalla Rivoluzione francese e, con essi, il lascito, non meno cospicuo, degli ideali laici e repubblicani di Mazzini e di altri padri della Patria cui si ispirarono i costituenti del biennio ’46-’47 per redigere la nostra Costituzione.
La realtà è che lo stesso Ulivo è stato rapidamente sotterrato, in quanto, pur perseguendo erroneamente una visione maggioritaria, coltivava comunque la straordinaria ambizione di fare dell’Italia un paese protagonista e rispettato in Europa e nel mondo, motore del processo di integrazione politica continentale di cui Dio solo sa quanto avremmo bisogno in questa fase storica. Non piacevano Prodi e Andreatta e, con ogni probabilità, piaceva poco pure Ciampi: troppo rigorosi, troppo europeisti, troppo avulsi dalle camarille e dalle greppie di casa nostra, troppo signorili, troppo competenti, troppo garbati, troppo, semplicemente troppo per un Paese “volgare e gaudente”, già allora inquinato dal demone del berlusconismo, e prim’ancora del craxismo, che aveva come propria fonte d’ispirazione l’edonismo reaganiano di cui l’America paga ora a caro prezzo le conseguenze, trovandosi a dover prendere in considerazione l’ipotesi di poter essere governata per i prossimi quattro anni da un personaggio come Trump.
La realtà è che questa sinistra fasulla, non più comunista, non abbastanza azionista e liberale per perseguire il sogno di Occhetto, non abbastanza matura, europeista e consapevole dei propri mezzi per dare un’anima e un domani all’intuizione ulivista maturata in quel di Bologna, questa sinistra ha finito con l’essere poco più che un comprimario, un attore di secondo piano, costantemente rissosa, incapace di dettare l’agenda politica, priva di un progetto di ampio respiro e colma di vergogna al cospetto di una storia straordinaria e di un patrimonio culturale che sarebbe stato, invece, necessario preservare e trasmettere in tutta la sua ricchezza e nobiltà alle generazioni successive.
E così, oggi abbiamo al potere una classe dirigente che non ha storia, non ha valori di riferimento, non ha ideali, non ha modelli e non ha esempi: si colloca unicamente nel presente, galleggia in questa melassa gelatinosa di slogan autoprodotti e destinati a cambiare a seconda di dove soffia il vento e annaspa fra mille difficoltà e problemi troppo grandi per soggetti che hanno elevato la semplificazione a virtù, anzi a dogma, al punto di farne il pilastro di una pessima riforma costituzionale, in una fase storica caratterizzata, al contrario, dalla complessità e dal bisogno di un’analisi sociale puntigliosa, attenta e scevra da ogni pregiudizio.
Abbiamo al potere una classe dirigente che non ama la politica e si definisce con orgoglio “post-ideologica”, evidentemente senza sapere che ideologia significa, etimologicamente, discorso su una visione, ammettendo implicitamente di non possederne alcuna e di procedere a tentoni nel buio, abbagliati dalle proprie granitiche certezze che mai lasciano il posto al dubbio, all’interrogativo, all’analisi, allo studio, all’approfondimento, al tentativo di comprendere problemi ben più gravi e delicati della convenienza del momento. Ecco, se proprio bisogna imputare una colpa alla generazione dei D’Alema e dei Veltroni, non è sicuramente quella di non aver fatto nulla bensì quella di non essersi mai posti davvero il problema di chi sarebbe venuto dopo di loro, dimentichi del fatto di aver avuto maestri straordinari quali Ingrao, Foa, Berlinguer, Amendola e molti altri ancora.
Dalla contrapposizione fra un tutto sbiadito, in cui, progressivamente, il tutto è diventato non il partito ma la propria affermazione personale, e un niente in cui si è pensato di poter sostituire prima la tv e poi la rete alla fatica di selezionare dei rappresentanti all’altezza, da questo bipolarismo forzoso e incapace di confrontarsi senza scadere nelle urla sguaiate di un salotto televisivo in cui si va a recitare a soggetto è nata una nuova generazione, la mia, alla disperata ricerca di se stessa e di un senso che non c’è o, forse, c’è ma non si vede e, quando anche si palesa, non assume mai le sembianze di un partito.
E qui veniamo al M5S: un universo politico su cui ho scritto molto, al quale ho chiesto scusa e mosso critiche anche severe, del quale continua a piacermi la vitalità ma del quale continuo a contestare l’indeterminatezza e l’incapacità, resa evidente dalla manifestazione di Palermo, di affrancarsi dal proprio padre fondatore, tornato prepotentemente al centro della scena, sancendo di fatto l’impossibilità per i suoi ragazzi di cominciare a camminare con le proprie gambe. Peccato che un movimento politico, compreso un soggetto bizzarro come quello grillino, abbia bisogno di un segretario, di una segreteria, di ruoli chiari e ben definiti, di regole interne certe e valide per tutti, di un’ideologia e di una collocazione internazionale, di un programma credibile e alieno da ogni forma di populismo, non di un padre padrone sempre pronto a esercitare il proprio tutoraggio, la propria supervisione e, di fatto, ad annullare le differenze sempre più evidenti che vengono a crearsi all’interno, con il risultato disarmante che questo catino ribollente di passioni ambigue eppure degne di rispetto non riesce a trovare i propri spazi né a formulare una discussione senza infingimenti e, finalmente, alla luce del sole.
Peccato perché questa scelta di Grillo, alla lunga, sarà anche la causa dell’implosione di un soggetto destinato a rimanere in culla, a restare un embrione, una speranza mai realizzata, un sogno infranto, un ibrido, a metà fra gruppo di pressione e partito politico, fra megafono di una rabbia comprensibile e giusta alla quale i partiti tradizionali non riescono più a rispondere da anni e compagine dotata di un’adeguata cultura di governo, in grado di trasformare quella rabbia in proposte, leggi e classi dirigenti votate al riscatto degli ultimi e degli esclusi.
Peccato che neanche la sinistra a sinistra del PD, al netto di qualche bel sabato pasoliniano nel cuore della Roma popolare e testaccina, alla ricerca di una genuinità smarrita da tempo e annegata nelle proprie innumerevoli risse verbali sul nulla, neanche questa sinistra, volenterosa e condivisibile nelle idee e nei valori che esprime, sia in grado, al momento, di incarnare un’alternativa credibile al renzismo, il quale è in crisi ma può abbattersi soltanto da sé, rimanendo impigliato nella rete delle troppe promesse e delle troppe bugie che ha raccontato ad un Paese allo stremo e bisognoso di risposte immediate e convincenti.
Diciamo che un proporzionale con sbarramento ragionevole, al 3 o al 4 per cento, e almeno due preferenze, da questo punto di vista, potrebbe dare una mano, in quanto costringerebbe tutte le forze politiche a fare i conti con se stesse e a riscoprire la fatica della democrazia, del rapporto quotidiano con la gente, della necessità di costruire i governi in Parlamento e poi, ogni giorno, fra le persone comuni, smascherando in un batter d’occhio tutti i demagoghi che proclamano di voler governare da soli o far fronte in beata solitudine a un problema enorme come quello delle migrazioni, ossia al tema cruciale nel dibattito europeo e mondiale dei prossimi vent’anni, destinato a cambiare per sempre l’assetto socio-economico di almeno tre continenti.
Diciamo che il ritorno al proporzionale ci obbligherebbe ad essere più umili, più razionali, a ragionare nel merito e a liberarci di assurdità arroganti quali il “voto utile” e la compressione prepotente dei diritti e delle libertà, individuali e collettive, prima fra tutte quella di essere una minoranza e di voler comunque dire la propria.
Ricordiamoci che se siamo in Occidente è anche perché Saragat, col suo piccolo Partito Socialdemocratico, ruppe con il Fronte Popolare di Togliatti e Nenni; ricordiamoci che i socialisti dello stesso Nenni furono indispensabili ai fini della nascita del centro-sinistra, nel periodo più felice della nostra storia, a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta; ricordiamoci che quel minimo di rigore nei conti pubblici che abbiamo avuto in questo Paese lo dobbiamo soprattutto al minuscolo Partito Repubblicano di La Malfa e Spadolini; ricordiamoci che lo stesso Ulivo, nel ’96, ottenne la maggioranza al Senato solo grazie alla desistenza di Rifondazione Comunista e ricordiamoci, infine, che questa teoria rodomontica in base alla quale l’obiettivo è sempre quello di schiacciare i più deboli è la negazione stessa della democrazia.
Se vogliamo davvero uscire da questa barbarie artefatta che ha preso, arbitrariamente, il nome di Seconda Repubblica, dobbiamo dunque renderci conto che una società con adeguati pesi e contrappesi, ben bilanciata, nella quale, per dirla con Cuccia, i voti si contano e le azioni si pesano, nella quale i partiti abbiano un’identità e un radicamento sociale e non siano dei meri comitati elettorali con dentro tutto e il contrario di tutto, nella quale i sindacati (e lo scrivo a maggior ragione in occasione dell’ottantesimo compleanno di un grande sindacalista come l’ex segretario della CISL, Pierre Carniti) e le associazioni di categoria vengano regolarmente convocati e ascoltati, nella quale il servizio pubblico sia messo nelle condizioni di essere tale e la Costituzione, se proprio si avverte l’esigenza di ammodernarla, venga discussa nell’ambito di un’Assemblea Costituente, una società così è l’unica che possa dirsi veramente, pienamente democratica, con partiti seri e rappresentativi di qualcosa e di qualcuno e nei quali l’opinione pubblica possa minimamente riporre la propria fiducia.
Il Porcellum, l’Italicum, il Pateracchium e tutte le altre leggi elettorali e costituzionali di tal fatta, chiunque sia a vararle, costituiscono, invece, al pari di tutte le altre controriforme che comprimono i diritti sociali e partecipativi dei cittadini, un clamoroso disconoscimento dell’articolo 1 della Costituzione, ossia dei pilastri su cui si fonda il nostro stare insieme. E in una società sfibrata, sola e nemica di se stessa, qualunque esecutivo è destinato a durare poco e a governare male, anche se il despota illuminato di turno dovesse avere il privilegio di nominare non solo i suoi parlamentari ma anche quelli di tutte le opposizioni.
Perché i fatti hanno la testa dura e la politica, prima o poi, riaffiora e prende il sopravvento su chi vorrebbe sostituirla con un reality show, con un’autocelebrazione della propria epopea di cartapesta o con uno spettacolo comico che, alla lunga, non fa ridere più nessuno.