Ettore era fatto così, non si sentiva al centro del mondo malgrado lo strascico lucente dei suoi film acclamati ovunque. Sembra che una volta, trovandosi in chiesa durante la messa, ai vicini di banco che gli porgevano la mano al momento dell’invito del celebrante a scambiarsi un segno di pace, il regista si presentasse educatamente: “Piacere, Ettore Scola”. Una formula di cortesia che è diventata il titolo della mostra-ricordo aperta ieri al Museo Bilotti, nel cuore di Villa Borghese, capace di ripercorrere con mano leggera la vita e la carriera artistica del regista forse più amato dagli italiani.
La moglie Gigliola, a la figlia Silvia, durante la presentazione alla stampa, si sono dette sorprese di scoprire alla morte del regista, di quale straripante affetto fosse oggetto nel cuore delle persone. E Ettore stesso se ne sarebbe meravigliato se è vero, come hanno raccontato i curatori Marco Dionisi e Nevio de Pascalis, che quando sono andati a proporre il progetto nel maggio del 2012, l’interessato si era subito schermito secondo copione, obiettando: “Ma a chi volete che importi alla gente una mostra del genere, su di me poi… perché vederla?” In seguito si era rassegnato e aveva aperto i cassetti, non solo di casa, ma anche del vecchio ufficio di produzione, a Cinecittà, che aveva allestito con il suo storico scenografo Luciano Ricceri; ed era emerso di tutto, copioni, fotografie, cimeli, modellini, collezioni d’epoca, che ora, per chi ha nostalgia di Ettore Scola, e siamo in tanti, figurano ben ordinati nella sale della mostra. Del tutto congeniale al personaggio nella sua chiave quasi minimalista, sussurrata. Scola era un signore distinto, dai toni garbati, dal sorriso ironico ma indulgente, mai arrogante, abituato a tener bassa la voce e smorzare ogni eccesso personale. La naturale propensione all’understatement lo rendeva elegante, mai enfatico o chiassoso, mai ansioso di apparire. Rispondeva proprio all’immagine con cui si era ritratto con amabile distacco nel suo ultimo film, Che strano chiamarsi Federico, dedicato all’amico Fellini nel ventennale della scomparsa; una delle sue opere più riuscite e sincere, accolta con distrazione dal pubblico, e ciò che è più grave, anche della critica, al punto che gli stessi curatori della mostra, con un inciampo, lo rubricano come documentario. Che affronto per un film di pura finzione, interamente realizzato nel mitico Teatro 5 di Cinecittà con geniale tocco felliniano! Un racconto tenero, e spesso esilarante, in cui Ettore mette in scena se stesso insieme a Federico, perché no!, in una ricostruzione fedele dei primi passi compiuti al Marc’Aurelio sulla scia di talenti beffardi e grandiosi che prendevano in giro il mondo intero: Vittorio Metz, Marcello Marchesi, Attalo, Steno, Barbara, Maccari (che diventerà il coautore della maggior parte dei suoi copioni), Age, Scarpelli. Quell’empireo di umoristi che con i loro copioni assicureranno nel dopoguerra la fortuna del cinema comico e quindi della commedia all’italiana. Della quale Scola è stato l’artefice più raffinato, più profondo. I grandi successi di quegli anni, alcuni autentici capolavori di una stagione felice, recano la sua firma in sceneggiatura: Il Sorpasso, I mostri, Il Gaucho, diretti magistralmente da Dino Risi. Fino al ’64, quando egli stesso decise di passare alla regia, su istigazione di Vittorio Gassman, con Se permettete parliamo di donne, un film a episodi in cui il mattatore interpretava ben nove differenti caratteri. Esemplare scambio di ruoli nella misteriosa alchimia fra attore e regista: tutto ciò che Scola non era, diventava materia ludica per i personaggi a cui Gassman avrebbe infuso l’essenza visiva, l’evidenza plastica, della sublime meschinità italica: L’Arcidiavolo, C’eravamo tanto amati, I nuovi mostri, La terrazza, La famiglia, La cena. Stiamo parlando di un cinema che è esistito davvero, anche se oggi si stenta a crederlo, travolti da una mutazione antropologica che sta tutto appiattendo e cancellando come vento sulle dune.
La mostra offre questo cocktail vitaminico a un pubblico che dopo averla visitata potrà portarsela a casa, raccolta nel corposo catalogo stampato dalle Edizioni Sabinae di Simone Casavecchia, un almanacco super illustrato da consultare con voluttà, e inoltre un eccellente ‘libro di lettura’, che non sfigurerebbe nei programmi scolastici, se la nostra scuola giungerà mai a considerare il cinema come materia di insegnamento artistico-culturale. Il racconto procede di decennio in decennio, assecondando la poetica dell’autore nel suo sviluppo, nella sua progressiva precisazione, nelle tematiche e svolte stilistiche. Prende avvio dalla prima infanzia a Trevico, piccolo centro dell’avellinese, per approdare a Roma dove avviene per intero la formazione del futuro regista, tra liceo classico e facoltà di giurisprudenza. Ma con un invincibile richiamo verso il disegno, la vignetta, la battuta arguta, spiritosa, controcorrente, che favoriscono presto l’ingaggio del giovane brillante nei ranghi delle testate umoristiche e subito dopo dell’ambiente cinematografico. Un cursus honorum sostanzialmente non dissimile da quello di Federico Fellini, maggiore di lui di una decina d’anni e suo riferimento ideale.
In C’eravamo tanto amati, il suo film di culto, Scola chiama il collega riminese a interpretare se stesso nella leggendaria sequenza della Fontana di Trevi di La Dolce Vita. Federico, con una capriola beffarda delle sue, compare come una chimera, un mito vivente, una stella fissa inarrivabile e luminosa. Di cui però Scola non aspira a prendere il posto; si sente più vicino ai tre protagonisti del suo film, Antonio, Gianni Perego, Nicola Palumbo (Manfredi, Gassman, Stefano Satta Flores), i quali rappresentano altrettante facce della propria personalità: “A ritroso mi pare che ci sia molto di me in tutti e tre i personaggi”. E in particolare: “C’è l’idea che in Italia la collettività sia migliore dei suoi governanti e di quelli che parlano a suo nome”.
I tre amici, ex partigiani, una volta ‘scoppiato il dopoguerra’ pensano di essere in grado di cambiare la società e invece sarà la società a cambiare loro, con destini più o meno fallimentari: “Tutto questo perché, per un futuro diverso. – Sentenzia Gianni. – Il futuro è passato e non ce ne siamo nemmeno accorti”. La malinconia di Scola è legata in larga parte al suo sogno politico. Una passione che lo ha condotto all’impegno civile, alla militanza nel partito comunista, all’amicizia con Berlinguer e con Veltroni, alle rivendicazioni ideologiche, alle lotte sociali, a girare documentari di denuncia, persino ad accettare cariche surreali, come quella di Ministro Ombra della Cultura al tempo della segreteria di Achille Occhetto.
Nato sotto il segno del Toro, amabile e testardo, è restato sempre fedele al suo ideale, per quanto utopistico: un po’ il velleitario Stefano Satta Flores, un po’ il portantino Manfredi, un po’ l’arido borghese Gassman. Il suo cinema è radicato in questo contrasto inconciliabile in cui affonda pur sempre la sua immaginazione. Passione d’amore, Ballando ballando, Il mondo nuovo, Maccheroni, Una giornata particolare, Splendor, Che ora è, Il viaggio di Capitan Fracassa, parlano di una impossibile compiutezza esistenziale, di questa ineluttabile irrealizzazione. Ed è il sentimento che più ce lo fa amare e sentire affine, nell’esaltazione e nella mestizia. Ricorda quei grandissimi artisti cinquecenteschi, ingiustificatamente defilati, come Lorenzo Lotto o Sebastiano del Piombo, che sdegnavano il proscenio intenti a inseguire una propria idea della pittura e della vita, che bastava a se stessa. Certamente questo aspetto l’avevano intuito gli attori che, tutti indistintamente, lo adoravano. Mastroianni, Sordi, Manfredi, Gassman, Stefania Sandrelli, Giovanna Ralli hanno dato sui suoi set le prove più mirabili, più eccelse e convincenti. Quale fosse il segreto di Ettore forse riesce a suggerircelo con immediatezza Pietro Scola, suo fratello maggiore e inseparabile, con questo aneddoto che sembra da nulla: “In una scena di La Famiglia con Gassman anziano, Ettore diceva a Vittorio: «Ma guarda che non devi camminare così, dovresti camminare meno sicuro… sai hai una certa età». «Ma come devo camminare? Mica ho capito.» «E guarda mio fratello – rispose Ettore – ecco, cammina come lui!». La vita che irrompeva semplicemente sullo schermo. E viceversa.
Questa è anche la peculiarità della mostra che resterà aperta fino all’ 8 gennaio 2017 prima di partire alla volta di Milano e di Parigi; un’occasione per un’immersione felice nel mondo di Scola, un abbraccio che non si dimentica.