Oriana Fallaci, fiorentina di quelle toste, toscanaccia nel dna e, come ogni toscano che si rispetti, irascibile, lunatica, fumantina e spesso dotata di battute sferzanti e, talvolta, in grado di tagliare l’interlocutore a metà come se al posto della voce possedesse una lama.
Ma soprattutto: Oriana Fallaci, giornalista. E che giornalista! Una che andò in Vietnam e vide la guerra con i propri occhi, vivendo in mezzo ai soldati e raccontandola con articoli scritti nella giungla e nell’inferno delle trincee, parlando in prima persona con ragazzi di vent’anni mandati a morire e, per questo, comprensibilmente terrorizzati. Una che ha intervistato la storia e il mito, i potenti, quasi tutti, e i grandi del cinema, senza dimenticare le star capricciose di Hollywood e gli astronauti americani che preparavano lo sbarco sulla luna. Una che ha amato l’impossibile e poi gli ha dedicato un libro, “Un uomo”, che come tutte le sue opere è diventato immediatamente un best-seller, con alcune pagini memorabili e in grado di commuovere e indurre a riflettere sull’eccezionalità della figura di Panagoulis (di cui, a proposito, quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario della scomparsa) e sulla barbarie della dittatura dei Colonnelli in Grecia. Una che ha rischiato la vita una miriade di volte e ne è sempre uscita indenne, in quanto era più furba di una volpe e la guerra l’aveva vista da vicino fin da quando, a quattordici anni, faceva la staffetta partigiana con il nome di battaglia “Emilia”. Una che ha sfidato tutto e tutti, a cominciare dai benpensanti, dagli ipocriti, dai cialtroni sempre asserviti a un potere e da quelli che hanno il proprio “dittatore preferito”, come lo definiva un altro toscanaccio quale Montanelli, fino a farsi detestare e temere al tempo stesso persino all’estero, in qualunque paese mettesse piede e ovunque giungesse l’eco delle sue opere.
Questa era Oriana Fallaci, scomparsa esattamente dieci anni fa, all’età di settantasette anni, al termine di un’esistenza ricchissima di valori, di avventure, di sfide e di scontri, dai quali, è superfluo sottolinearlo, è uscita vincitrice persino quando aveva torto.
D’altronde, cos’altro c’era da aspettarsi da una che, ancora giovanissima, raccontò sulle pagine dell’Europeo, allora diretto da Arrigo Benedetti, la storia amara, e divertente al tempo stesso, di un comunista di Fiesole cui, in piena Guerra fredda e nel periodo della scomunica di Pio XII, la Chiesa aveva negato la sepoltura in terra consacrata e la cerimonia religiosa, al che i compagni si erano vestiti da preti, avevano imparato a memoria le preghiere funebri e inscenato un funerale religioso?
Cosa c’era da aspettarsi da una che non tremò di fronte a nessuno, neppure quando si trovò davanti a Khomeini, e che ebbe l’ardimento di parlare subito di omicidio fascista quando si trovò al cospetto del corpo straziato dell’amico Pier Paolo Pasolini?
Ribadisco: negli ultimi anni, dopo l’11 settembre, è stato difficile andare d’accordo con una donna che prese a teorizzare l’inesistenza dell’islam moderato e a mettere nello stesso calderone i musulmani perbene, ossia la stragrande maggioranza, e i farabutti che compiono attentati o azioni delinquenziali di qualsiasi tipo.
È rimasta in silenzio per un decennio e poi è tornata, a modo suo, dirompente come sempre, con tre libri, “La rabbia e l’orgoglio”, “La forza della ragione” e “Oriana Fallaci intervista se stessa – L’Apocalisse”, che hanno suscitato un dibattito enorme e generato discussioni a non finire, anche fuori d’Italia, dalle quali lei, come detto, è uscita trionfante, in quanto la morte le ha restituito ciò che molti, me compreso, le avevamo tolto in vita, ossia il credito cui, invece, aveva diritto.
Una donna forte, tenacissima, capace di stupire e di stupirsi, di innamorarsi e di provare passioni viscerali, di arrabbiarsi e di farsi detestare, salvo poi rendersi conto di quanto sia stata, in realtà, straordinaria la sua eredità, con quel patrimonio di scritti e di interviste che costituisce, comunque la si pensi, un patrimonio storico del giornalismo italiano e mondiale.
E poi una donna, tenacemente, fortissimamente donna, donna a ventiquattro carati persino quando venne ferita gravemente nella piazza delle Tre Culture a Città del Messico, nel corso degli scontri con la polizia e con l’esercito che si verificarono alla vigilia delle Olimpiadi di quell’anno e che videro coinvolti soprattutto gli studenti in rivolta, dando luogo a una vera e propria strage di civili.
Oriana Fallaci: l’unica o, comunque, una delle pochissime giornaliste nelle cui interviste le domande contavano più delle risposte, chiunque avesse davanti. E in fondo, quando ha intervistato se stessa, non ha fatto altro che rivelare una verità che chi la seguiva da tempo già conosceva: Oriana ha sempre intervistato se stessa, la propria anima, i propri ideali e le proprie contraddizioni; gli intervistati non facevano altro che prenderne atto e arrivare là dove lei voleva che arrivassero, come se fossero telecomandati.
Come disse Jas Gawronski quando si apprese della sua morte: “Oriana se n’è andata al momento giusto”, quando aveva detto tutto ciò che aveva da dire, senza fronzoli né alcuna stilla di retorica: cosa che, come tutti i cronisti di razza, detestava nella maniera più assoluta.
La rabbia e l’orgoglio: no, non è stato solo un libro; sono stati, più che mai, i due volti di una donna fiera e arrabbiata con se stessa e col mondo, col cancro che l’ha divorata e con le pagine che divorava quando scriveva, facendo crepitare la sua macchina da scrivere in tutti i contesti possibili e immaginabili.
Fu una donna, una giornalista, una sognatrice pragmatica, una che commise molti errori e ne pagò le conseguenze in prima persona e, infine, una che ebbe molte volte ragione ma quasi mai le venne riconosciuta: in poche parole, una protagonista di primo piano del Ventesimo secolo.