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“Operazione San Gennaro” di Dino Risi, a cinquant’anni dalla sua prima proiezione

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Ultime di cronaca: colpo gobbo alla Cattedrale di Napoli ove i ‘soliti ignoti’ –probabilmente scalcagnati- asportano silenti dalla sacrestia (in pieno giorno, pare) diecimila euro necessarie al vescovo per stipendiare alcuni dipendenti della diocesi. Strana coincidenza o qualcosa di più inquietante, ‘sacrilego’, scaramantico?
In molti tenteranno la fortuna al lotto, ‘smorfiando’ l’accaduto. E tenuto conto che, giusto 50 anni fa, esordiva (con successo a scoppio ritardato) quell’”Operazione San Gennaro” di Dino Risi che resta tra  i film più esilaranti e connotativi di quella lontana stagione di cinema italiano. 

Il contributo di Danilo Amione è stato comunque scritto prima del colpo gobbo in Cattedrale. Presentimento o fatalità?

Ci sono film che sembrano segnare delle parentesi nella carriera di alcuni grandi registi. Film di puro intrattenimento, in cui critici e studiosi provano vanamente a trovare agganci con la poetica alta di questi autori momentaneamente in fuga. Magari, i motivi  di questi “relax” sono soltanto alimentari, o forse conta anche la voglia di mettere mano alla cinepresa per rilassarsi dopo impegnative prove precedenti. O entrambe le motivazioni potrebbero giocare un ruolo complementare. Farò due esempi storici sui tanti che si potrebbero fare. Uno è ”Sette volte donna” di Vittorio De Sica, del ’67, posteriore ad opere importanti come “Il boom”,’63 “Matrimonio all’italiana”, ’64, e “Un mondo nuovo”, ’66. L’altro è “C’era una volta”, di Francesco Rosi, anch’esso del ’67, posteriore a capolavori come “Salvatore Giuliano”, ’62 e “Le mani sulla città”, 63. Fra i tanti altri esempi non citati, si potrebbe inserire anche il film di Dino Risi “Operazione San Gennaro”, del 1966, visti i giudizi unanimi che la pellicola ha ricevuto, in questo senso, da tutti i critici e studiosi del nostro paese.

L’opera è stata realizzata dal grande regista milanese dopo aver esitato una serie di capolavori che hanno tracciato le coordinate della più matura commedia all’italiana, da “Una vita difficile”, ’61, a “Il sorpasso”, ’62, da “La marcia su Roma”,’62, a ”I mostri”, ’63, da “Il giovedì”, ’64, a “Il gaucho”, ’64, e “L’ombrellone”, ’65. Il film è una divertentissima commedia d’intrattenimento con forte connotazione comica, sottogenere “colpo grosso da preparare e realizzare” (“heist movie” per gli americani), in cui la colorata ambientazione napoletana è arricchita dalla presenza di prestigiosi attori dell’epoca come Nino Manfredi e Totò.

Vagamente ispirato a “I soliti ignoti”, ’58, ineguagliato capolavoro di Mario Monicelli, il film racconta di tre ladri americani, che arrivati a Napoli per rubare il tesoro di San Gennaro, chiedono aiuto al massimo esperto di furti della zona, l’anziano Don Vincenzo O’ Fenomeno (interpretato da un sempre  memorabile Totò, in un ruolo che ricorda tanto il Dante Cruciani del succitato film di Monicelli), momentaneamente in carcere, ma qui libero di muoversi a suo piacimento, grazie al rispetto di cui gode fra le guardie carcerarie.

Questi consiglia ai tre di rivolgersi a tale Armandino Girasole detto Dudù (un inarrivabile Nino Manfredi versione napoletana), che egli considera il suo naturale erede. Detto fatto, i tre americani si rivolgono, per un lavoro di solo appoggio, al presunto astro nascente Dudù, il quale accetta l’incarico. Egli è, però, ignaro, per volontà dei tre yankees impauriti di un suo eventuale “devoto” rifiuto, che l’obiettivo del colpo è il tesoro dell’amato San Gennaro. Ma il primo tentativo va, comunque, penosamente a vuoto(a causa della morte di uno degli americani per indigestione in una festa organizzata da parenti di Dudù!).

A questo punto, il resto della banda americana si vede costretta ad informare Dudù del vero obiettivo del colpo. In preda ai sensi di colpa, Dudù, insieme ai suoi scalcinati accoliti, va a chiedere direttamente al Santo, in Chiesa,l’autorizzazione per partecipare al colpo, promettendo allo stesso che tutto il ricavato del furto resterà a Napoli e che a beneficiarne saranno anche i poveri della città. Dopo varie ed esilaranti peripezie, il colpo riesce, ma nel movimentato finale il tesoro di San Gennaro tornerà di nuovo al suo posto, senza conseguenze per Dudù e la sua banda. Alla fine, tutti felici e contenti….. Dunque, a detta di tutti gli analisti, un film divertente, brioso, di gran ritmo, di grande successo popolare, ma nulla di più, e per questodegno di finire in quell’elenco di film fuori dai contenuti alti e altri del suo grande autore. In realtà , una attenta analisi del film ci porterà a ribaltare questa facile sentenza. Risi nei suoi film precedenti, sopra citati, aveva disegnato i cambiamenti avvenuti nel nostro paese nel giro di pochi anni, in conseguenza del cosiddetto boom o miracolo economico. Cambiamenti culturali, comportamentali, antropologici financo, che, per dirla con Pasolini, avevano finito per stravolgere persino l’identità stessa degli italiani.

Il repentino passaggio del nostro paese da agricolo ad industriale, di concerto con l’inevitabile affermarsi del consumismo, figlio del neocapitalismo, aveva messo in moto un processo degenerativo che, mai più corretto, avrebbe portato conseguenze oggi sotto gli occhi di tutti. Dunque, Risi, che al pari di Antonioni, del citato profetico Pasolini, come anche del Fellini de “La dolce vita”,per privilegio d’anagrafe aveva conosciuto un altro mondo, e aveva assistito a questi cambiamenti epocali, aveva puntato il dito, in tempo reale, su quanto stava accadendo nel nostro paese.E lo aveva fatto, innanzitutto, con quel cinismo e quell’ironia che sono le caratteristiche prime dei suoi massimi capolavori. E di cosa è mai fatto “Operazione San Gennaro”, se non di ironia e cinismo! La prima sequenza del film si svolge a bordo di un aereo della Pan American, dove Senta Berger, che interpreta Maggie,la bella componente della banda americana, sta per arrivare in Italia, travestita da suora!, con in valigia l’attrezzatura ipertecnologica necessaria a rubare l’oro del Santo.

Siamo a soli venti anni dall’arrivo degli americani in Italia come liberatori, e Risi ce li (ri)presenta come ladri di tradizioni e culture popolari, in una metonimia che mette in campo quanto di americano è arrivato, purtroppo, con il boom (compresa la stessa parola), nel nostro paese! Atterrato l’aereo, la banda americana al completo si sposta in chiesa dove, con un geniale montaggio alternato, Risi mette in evidenza il contrasto tra la devozione dei fedeli, che assistono al miracolo del sangue del Santo che si scioglie, e il sopralluogo,finalizzato al furto, che gli americani fanno nei sotterranei dove è conservato il tesoro di San Gennaro. Dunque, Napoli, fin da subito, e rimarrà il leitmotiv dell’intero film, è vista dal regista milanese come una delle ultime depositarie di quel mondo arcaico tanto anelato e rimpianto da Pasolini, che, non a caso, vi ambienterà solo qualche anno dopo il suo “Decameron”. Ed è all’integrità di questo mondo che gli americani, simbolo del consumismo, attentano, con il loro “metaforico” furto del tesoro. Persino, l’insistente “colore napoletano” che Risi semina a piene mani nel film, sembra volere rimarcare questa netta differenza fra mondi ormai inconciliabili. Usciti dalla Chiesa, gli americani vanno a trovare Don Vincenzo.

Questistranizza gli americani, dicendo di preferire il carcere alla libertà, proprio perché la libertà per lui si sostanzia nella felicità dei rapporti che in carcere ha instaurato. In questo, Don Vincenzo è gemello di quell’altro personaggio che lo stesso Totò impersonò nel dimenticato e splendido film di Rossellini “Dov’è la libertà?”, ’53.La libertà è sempre sostanziale, mai formale, se non per gli americani, depositari di un individualismo anticomunitario, che, come detto, allora cominciava a diffondersi in tutto il mondo, Italia compresa. Lasciato il carcere, Maggie si dirige verso la casa di Dudù, attraversando i vicoli di Napoli. I suoi vestiti sgargianti e impeccabili cozzano con la “verità” che promana dagli abitanti dei bassi tanto cari ad Eduardo. Il successivo incontro degli yankees con Dudù e la sua scalcinata banda, diventa inevitabile scontro di “civiltà” fra l’inventiva desiderante e la furbizia difensiva napoletana e l’arida, robotica e prepotente tecnologia americana.

Si avverte forte il senso di disagio che gli uni sentono verso gli altri, soprattutto quando Risi, genialmente, appalesa il tutto con scene comiche, lanciando così, a suo modo, allo spettatore quasi un avvertimento su dove il mondo si stia dirigendo. La spietatezza del Capitale, che si esplica nelle intenzioni degli americani di impossessarsi di tutto il tesoro, senza spartire il bottino con i napoletani, trova il giusto contraltare nei sensi di colpa diDudù, che confessa a San Gennaro di voler utilizzare il suo tesoro anche altruisticamente. Un gesto che Risi colloca, significativamente, a non renderlo vuoto luogo comune, nella parte centraledel film, quando già lo spettatore è pienamente immerso in un mondo, quello arcaico-napoletano, fatto di stenti e sopravvivenze avite, seppur veicolate sullo schermo nei modi della commedia. Lo stesso ribellarsi della madre adottiva di Dudù alle scelta del figliodi rubare il tesoro non è solo frutto di una forte devozione, ma un modo di vedere le cose del mondo che non può cambiare da un momento all’altro.Il tesoro non è solo legame con il Santo, è prima di tutto legame con la memoria, con la tradizione intesa come base fondante diuna comunità. Il Dio denaro, che si contrappone al Dio che sanguina, dice Risi, sta attentando proprio a questo.

Altrove c’è riuscito, a Napoli ancora no!Ed è’, certamente, emblematico che alla figura della madre napoletana si contrapponga Maggie, l’unica donna della banda americana, che non avrà remore ad uccidere il proprio complice per impossessarsi di tutto il bottino. Anche l’istinto materno e vitale, tutto femminile, scompare dinnanzi al Capitale, oramai interiorizzato.Così,la processione finale, con tutti i devoti che recuperano l’oro e lo rimettono sulla statua del Santo, diventa quasi un momento liberatorio, una festa nella festa. Dunque, Dino Risi ha fatto un film comico, allegro, ma assolutamente in sintonia con tutti gli altri suoi capolavori. L’autore milanese ha concesso allo spettatore del 1966 una boccata d’aria, e una marea di risate, tenendo sempre in un primo piano metaforizzato la consapevolezza di un paese già avviato, inevitabilmente, ad un destino più grande di lui. E, oggi, a 50 anni di distanza, possiamo solo dire che aveva visto lontano.


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