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Le lobby che influenzano le politiche migratorie europee

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Il punto di partenza è il rond-point Schuman, al centro del quartiere delle istituzioni europee. È qui che Stéphanie, dell’ong pacifista belga Agir pour la paix, dà appuntamento per una visita guidata di Bruxelles diversa dalle altre.

Francesca Spinelli

Il punto di partenza è il rond-point Schuman, al centro del quartiere delle istituzioni europee. È qui che Stéphanie, dell’ong pacifista belga Agir pour la paix, dà appuntamento per una visita guidata di Bruxelles diversa dalle altre. L’idea di mostrare i luoghi in cui le politiche dell’Unione europea prendono forma, plasmate dagli incontri e dalle intese tra funzionari, deputati, uomini di governo e gruppi di pressione, è venuta nel 2004 all’ong Corporate Europe Observatory, un osservatorio delle attività di lobbying aziendale presso le istituzioni europee.

“Poi nel 2012”, racconta Stéphanie, “in occasione della prima Carovana dei sans-papiers e dei rifugiati, qualcuno ci ha suggerito di ideare un lobby tour incentrato sul rapporto tra l’industria delle armi e della sicurezza e le politiche migratorie”. Da allora Agir pour la paix organizza regolarmente quest’attività, che in poco più di due ore e una decina di tappe presenta i principali responsabili della militarizzazione delle politiche migratorie europee.

Le visite, gratuite, si svolgono di sabato, quando il quartiere degli uffici riposa e i palazzi offrono le loro facciate silenziose allo sguardo indagatore della comitiva guidata da Stéphanie.

Industria del confine
Come la maggior parte dei gruppi di pressione, anche quelli che rappresentano i produttori di armi e di tecnologie di sicurezza hanno sede vicino alle istituzioni europee. Al numero 11 del rond-point Schuman, per esempio, c’è l’ufficio del consorzio europeo di produttori di missili Mbda. Se Stéphanie comincia il lobby tour da questo palazzo non è perché l’Unione europea si prepara a usare missili contro i profughi che cercano di raggiungere le sue coste (per ora si limita a tollerare che la guardia costiera greca spari alle loro imbarcazioni).

Mbda è una joint venture tra Finmeccanica Leonardo, l’azienda britannica Bae Systems e il gruppo francotedesco Airbus, i tre produttori che, insieme alla francese Thales, traggono maggiori profitti dal rafforzamento dei controlli alle frontiere europee e dalla cooperazione con paesi terzi per bloccare gli “indesiderati” diretti in Europa.

Sono loro i principali vincitori di queste “guerre di frontiera”, titolo di un rapporto pubblicato a luglio del 2016 dal Transnational institute e dall’ong neerlandese Stop Wapenhandel. Aziende che, da un lato, alimentano i conflitti nei paesi di origine di tanti profughi vendendo armi a regimi repressivi o corrotti, dall’altro alimentano l’idea che le frontiere europee siano minacciate da questi stessi profughi, assicurandosi così un nuovo, lucroso mercato.

Quest’industria del confine (per riprendere l’espressione coniata dal ricercatore neerlandese Theodore Baird, autore di un bell’articolo sull’argomento) punta in particolare sulla diffusione di nuove tecnologie come gli aeromobili a pilotaggio remoto (Apr). “L’uso di Apr per operazioni di sorveglianza comincia a diventare realtà”, si legge nel rapporto Border wars. “A febbraio del 2016 la Finlandia ha annunciato che testerà dei droni per sorvegliare i confini con la Russia”. Inoltre, “entro la fine del 2016 l’Agenzia europea per la sicurezza marittima (Emsa) dovrebbe cominciare a usare dei droni per sorvegliare i confini marittimi”. Operazioni di sorveglianza che l’Emsa appalterà a una società esterna e per le quali la Commissione europea vuole stanziare più di venti milioni di euro.

Di recente Thales (il cui ufficio segna un’altra tappa del lobby tour) ha presentato il Fulmar X, il nuovo modello di un drone lanciato nel 2011 con l’azienda spagnola Aervisión. Nell’estate del 2011, in Grecia, il Fulmar aveva effettuato un volo di dimostrazione su invito di Frontex, l’agenzia europea incaricata di coordinare la sorveglianza delle frontiere esterne degli stati membri.

Quello stesso anno il mandato di Frontex era stato esteso fino a comprendere, tra le altre novità, la possibilità di “acquistare, utilizzare in coproprietà o noleggiare attrezzature tecniche proprie per le sue operazioni”, possibilità tuttavia mai veramente sfruttata dall’agenzia. Presto le cose cambieranno. Il 14 settembre 2016 è infatti nato ufficialmente il Corpo europeo di guardia costiera e di frontiera, che entrerà in funzione a metà ottobre e dovrà istituire “un parco di attrezzature tecniche da impiegare nelle operazioni congiunte, negli interventi rapidi alle frontiere e nell’ambito di squadre di sostegno per la gestione della migrazione, nonché in operazioni e interventi di rimpatrio”.

L’industria del confine ha appena acquisito un nuovo, facoltoso cliente (il bilancio stanziato per il 2017 è di quasi 281 milioni di euro), raggiungendo così un obiettivo perseguito da anni. In un documento del 2010, ricordano gli autori del rapporto Border wars, la European organisation for security (Eos), la principale associazione di produttori di tecnologie di sicurezza, auspicava esplicitamente la creazione di un “corpo europeo di guardie di frontiera in grado di sostenere gli interventi degli stati membri, fornendo risorse in caso di crisi”.

Il ruolo ambiguo di centri studio e gruppi di esperti
Le convergenze tra aziende del settore e istituzioni europee non si costruiscono solo grazie al lavoro delle lobby, alle quali bisogna riconoscere il merito di presentarsi per quello che sono: gruppi di pressione che difendono gli interessi di un dato settore (in modo più o meno corretto, ma questo è un altro discorso). Molto più ambiguo è il ruolo di altre realtà evocate da Stéphanie, come alcuni centri di studio o gruppi di esperti che, pur contando numerosi rappresentanti dell’industria tra i loro amministratori o iscritti, forniscono alle istituzioni europee pareri e raccomandazioni presentandoli come imparziali.
Ci sono poi i casi di “porte girevoli”, persone che dopo una carriera nelle istituzioni europee passano a lavorare nel settore privato (passaggio teoricamente regolamentato dallo statuto dei funzionari delle istituzioni europee), anche in presenza di un evidente conflitto di interessi.

L’attuale responsabile dei rapporti istituzionali di Finmeccanica a Bruxelles, Massimo Baldinato, è stato assunto nel 2015 dopo aver lavorato sei anni nel gabinetto dell’allora Commissario europeo per l’industria e l’imprenditoria Antonio Tajani. I casi di porte girevoli non sono rari da queste parti, ma se consideriamo i principali produttori di tecnologie di sicurezza, Finmeccanica è l’unico ad avere un rappresentante proveniente dalle istituzioni europee. Al percorso professionale di Baldinato si è interessato anche Corporate Europe Observatory, che da anni denuncia il lassismo della Commissione di fronte a casi del genere. Il 14 settembre 2016 l’osservatorio si è rallegrato della volontà della mediatrice europea, Emily O’Reilly, di continuare a indagare sul modo in cui la Commissione gestisce questi casi.

Quando Stéphanie annuncia la fine della visita guidata, l’atmosfera che regna tra i partecipanti è piuttosto sconfortata. “I migranti sono il carburante dell’industria della sicurezza”, riassume lei. Non è tanto la spregiudicatezza dei produttori a scandalizzare quanto la connivenza di parte delle istituzioni europee: il Consiglio europeo, attraverso il quale i governi difendono gli interessi delle aziende nazionali, e la Commissione guidata da Juncker, che pur non avendo inaugurato la lotta con (quasi) ogni mezzo all’immigrazione detta irregolare, ne ha fatto un perno della sua agenda sulla migrazione, tendendo entrambe le mani alle aziende che promettono di salvarci da questa minaccia inesistente.

Fonte: www.internazionale.it

Da perlapace


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