“La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”

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«“Buffoni”, “venduti”, “vergogna”. E poi “servi della gleba”, “vi inventate storie”. E ancora urla, altri insulti, spintoni, in un caso almeno uno schiaffo. È una vera e propria contestazione di giornalisti quella andata in onda tra i rivoli di Italia 5 Stelle, la festa nazionale dei grillini in corso a Palermo». È l’incipit del resoconto de Il Fatto Quotidiano sulle aggressioni, verbali e non solo, che alcuni militanti pentastellati hanno riservato ai giornalisti in occasione dell’arrivo di Virginia Raggi alla kermesse del loro movimento.

Ho voluto riprendere il giornale diretto da Marco Travaglio perché è quello che meno può essere accusato di antipatie preconcette sull’universo grillino. Eppure, proprio una giornalista di quella testata ha avuto in dote uno schiaffo da una troppo accalorata supporter della creatura politica della Casaleggio Associati srl. Una responsabilità limitata che ha senso solo in economia; nel mondo reale, invece, se tu istighi continuamente al “dagli al giornalista”, finisce che qualcuno, poi, a quel giornalista gli dia davvero. A poco servono, allora, le prese di distanza, dopo che per anni ci si è inventati le rubriche del linciaggio o si è spiegato che l’informazione è tutta asservita, e l’unica libera è quella dell’organo ufficiale del partito, pardon, del blog del capo (ha detto lui di esserlo, all’anima dell’anti-leaderismo di cui faceva professione e fra le estasiate urla d’approvazione della base) del movimento. E sarebbe comodo pensare che sia un’esclusiva grillina il dileggio della stampa, ma purtroppo abbiamo visto il “Nuovo” nella sua incarnazione simbolica, la Leopolda fiorentina, fare la classifica dei giornali secondo il Governo, per suscitare lo sdegno del popolo verso quelli non consoni al “bene del Paese” perseguito dalla sua azione. Domenica a Palermo, però, è arrivato il salto di qualità, mentre esponenti di primo piano saltavano a ritmo di musica: sono volate le mani.

In Italia c’è un problema di libertà di stampa? Certo. Ma c’è anche perché i politici si arrogano il diritto di minacciare o intimorire i giornalisti (cosa che tentò con me un’assessora provinciale, di cui francamente non ho memoria del nome, e che mi telefonò per lamentarsi, peraltro col garbo che la sua eleganza permetteva, del fatto che io non l’avessi citata in un articolo su un convegno, probabilmente perché, fra le cose che disse, nulla mi sembrò degno di nota o magari di quelle ne tacqui, ché mi pareva più indelicato riportarne il contenuto).

Dopo generazioni di minzolini e rondolini, è chiaro che, dal consigliere comunale a salire, chiunque rivesta un ruolo elettivo si senta in diritto di ritenere inconcepibile trovare nelle parole di un articolo o di un servizio qualcosa che non sia un elogio costante al potente di turno. Ma è così, rassegnatevi: non a tutti piacciono “le riforme per fare le riforme che aspettavamo da venti, quaranta, settant’anni”, non tutti credono che quella formatasi spingendo un canotto con dentro un comico che non faceva più nemmeno ridere sia la migliore classe dirigente che ci meritiamo.

Il rischio, al contrario, è che ci si dimentichi dell’articolo 21 della Costituzione, e che si scivoli, inesorabilmente, verso quel terreno in cui le voci dissonanti sono intimidite e tacitate, a meno che non siano esse stesse funzionali a qualche altro disegno, a qualche altro gruppo di potere o che aspiri a prenderlo. Non sarebbe un declino nuovo per questa nazione, al contempo, sarebbe un futuro triste e tragico nel quale vivere.


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