Fare un’inchiesta è complesso come far nascere un bambino

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Le ultime battute prima della consegna. Manca qualche copertura, il montaggio ci manda ai matti, la musica pure non scherza! Le scene montate e le crisi isteriche di un agosto febbrile a Roma con un computer, tre sedie e tre cervelli che si scannano per una frase, “toglila”, “mettila”, “toglila”, “mettila”… fino a quando, per osmosi o per qualche processo chimico addebitabile alla stanchezza, uno di noi dice, “inseriamola, poi vediamo…
Oscilliamo tra la sensazione di aver finito tutto e quella di non aver fatto ancora niente, mentre sembra che un enorme orologio ci sovrasti e scandisca le nostre azioni al ritmo di un “tic tac, tic tac.” Abbiamo tutto, anche gli speech registrati venti volte, diversi copioni, diverse stesure. Il climax narrativo e le pause, un sali e scendi che culmina nel momento in cui si svela l’arcano. Dobbiamo soltanto finalizzare il nostro lavoro, asciugarlo aggiungere qualche grafico, audio e colori…
Agosto è volato e ad attenderci abbiamo trovato tutti gli impegni che avevamo rimandato. Le stanze di ognuno di noi sono tappezzate di post-it: “fare questo, telefonare quello, scegliere la musica, importare file”.
Eppure c’è una storia importante che non abbiamo raccontato, che non siamo ancora riusciti ad inserire nella nostra inchiesta. Qualcosa manca.
Attendiamo delle risposte. Si parla di una fonte, di un testimone. Un personaggio chiave, restio alle telecamere per paura, timore e ansie che fino a poco tempo fa non avremmo compreso a pieno. Quelle stesse ansie, quei timori che oggi invece costituiscono l’architrave della nostra inchiesta. Un testimone che ha paura e non si fida, che ci racconta a bassa voce ciò che ha fatto e ciò che ha subito.IMG_5876
Lo abbiamo contattato a luglio. Pochi giorni dopo lo abbiamo incontrato in un bar, “forse sì, forse no, discutiamone da vicino, non so se mi intervisterete, la situazione è veramente difficile”. Mail, chiamate disperate poi, messaggi, ogni giorno a tergiversare, ad assecondare, a rilanciare, aspettando. “Portate pazienza, datemi tempo” a chiudere l’ultima telefonata.
“Dobbiamo consegnare la nostra inchiesta per settembre, abbiamo i minuti contati”.
“Non vi preoccupate, una risposta ve la do” e aspettando la fatidica conferma, nell’attesa snervante, lavorando e montando sequenze su sequenze, le domande e le questioni si ammassano.
“Come lo intervistiamo? Una semplice intervista? Gli oscuriamo il volto, camuffando la voce, se non vuole farsi riprendere?”.

Fare un’inchiesta è complesso come far nascere un bambino. Bisogna capire in che modo rassicurare le tue fonti, tutelarle fino alla fine, perché sai che stanno rischiando, ma combattere con una voglia cieca di poter raccontare quelle storie, di portarle alla luce, perché solo così si potranno cambiare le cose. E proprio come fa un’ostetrica, devi compiere le manovre giuste: non puoi permetterti di sbagliare. Perché raccontare è l’unica arma che abbiamo per scardinare, per ribaltare, per capovolgere una realtà che non è mai quella che sembra veramente e quando riusciremo ad instillare anche solo il minimo dubbio che le cose non stanno davvero così, solo allora, saremo soddisfatti di ciò che abbiamo fatto in tutti questi mesi.

*finalisti del premio Morrione 2016 con il progetto di inchiesta “Le catene della distribuzione. Tutor Toni Capuozzo

Fonte: “Libera Informazione”


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