“Ci siamo, ormai lo striscione del traguardo si vede”, diceva nelle sue belle telecronache Adriano De Zan. Lo stesso vale per la “piccola” riforma dell’editoria, ora agli sgoccioli della seconda lettura del Senato, che ha introdotto qualche modifica positiva, tale da rendere potabile un testo un po’ così. L’articolato, infatti, si tiene fuori o si avvicina blandamente ai terreni dello scontro in corso:il caso Rcs, la fusione tra Stampa e Repubblica con annessa messa in vendita del Centro di Pescara e della Città di Salerno per rientrare nel limite antitrust; “Mondazzoli”, emblema della crisi del libro con i riflessi sulla contesa sul salone –Torino, Milano-; il rapporto tra il prodotto e i grandi aggregatori come Google o Facebook; o le gigantesche reti della distribuzione come Amazon, il cui vicepresidente Piacentini si appresta a diventare commissario dell’Agenda digitale a dispetto dei santi. Comunque, è innegabile che si tratti di un passo avanti, che dà un filo di speranza alle testate ancora in vita legate al “Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione” (ex Fondo dell’editoria), ridotte a un terzo dal 2009 ad oggi. Stiamo parlando di quei fogli che hanno un valore di opinione o si collocano negli ambiti locali. E’ una delle facce di un mondo affascinante e spesso negletto che attiene all’associazionismo, al volontariato, ai movimenti. Tuttavia, al di là della legge, la Presidenza del consiglio non ha ancora chiarito quali siano le risorse reali a disposizione quest’anno, se è vero che dai conti risultano solo (all’incirca) 14 milioni di euro a disposizione:assai meno di un decimo rispetto a dieci anni fa. E nel lungo periodo, scriveva Keynes, saremo tutti morti. Qui il periodo è, in verità, breve breve. Che il varo della riforma coincida con un impegno non generico del sottosegretario con delega Lotti. In verità, il Fondo andrebbe un domani reso un autonomo istituto “vigilato” dal parlamento e presieduto da personalità indipendenti. Il finanziamento dovrebbe essere ben più cospicuo e tratto tanto da una quota del canone della Rai, quanto da una specifica tassa di scopo a carico dei settori di maggior forza economica a cominciare dagli oligarchi “Over The Top”. Come la legge n.103 del luglio 2012 che avviò una bonifica dei criteri di erogazione delle risorse pubbliche eliminando varie zone d’ombra, così la proposta odierna fa un ulteriore passo avanti. Il terzo atto sarebbe una normativa di sistema, di portata analoga alla legge n.416 del 1981 che aveva il rango di riforma vera.
Nel Fondo confluiscono pure le emittenti locali, che attendono –però- l’apposito regolamento. Alcuni miglioramenti rispetto all’esame della Camera vi sono, si è accennato: un’attenzione ai problemi della diffusione delle testate di opinione, il ripristino della differenza tra giornali locali e nazionali astrusamente abolita in precedenza, un incremento dell’acconto sul finanziamento. Una boccata di ossigeno, con merito sul campo del relatore Cociancich e dell’opera emendativa di Sinistra italiana. Il governo ha, poi, inserito in corsa un ritocco alla tempistica del rinnovo della concessione del servizio pubblico. Ambigua la scrittura, certo il rinvio. Propedeutica di un’evoluzione la parte sull’Ordine dei giornalisti.
Infine. Vi è stato un curioso dibattito sul tetto di stipendio per chi lavora in testate beneficiate dal Fondo: 240.000 euro. A chi si allude? Non ai precari, che operano in condizioni di povertà e che non vedranno neanche in dieci anni una cifra simile.