La vicenda della ragazza di Napoli che si è uccisa perché non ha sopportato la continua riproduzione in rete di un filmato hot che la vedeva protagonista, e che lei stessa aveva postato su WhatsApp e condiviso con cinque uomini, ha riproposto, in modo spesso confuso, il tema della possibilità o meno di cancellare, o di chiedere la cancellazione, di dati personali circolanti sulla rete attraverso i tanti social oggi esistenti.
Accanto a questo tema, è tornata al centro dell’attenzione la questione, del tutto diversa, del c.d. “diritto all’oblio” e della possibilità o meno di esercitarlo con successo in casi come questo.
Infine, si è riproposto il tema dei limiti che la protezione dei dati personali impone anche all’esercizio del diritto di cronaca e di libertà di stampa, allo scopo di assicurare che, ricorrendone le condizioni, la tutela della dignità della persona si contemperi col diritto di informare e di essere informati.
Sono tre questioni che devono essere affrontate separatamente.
Cominciamo dalla prima: il diritto a chiedere a un social o a una piattaforma sulla quale è stata postata dall’interessato o da altri la cancellazione di una informazione (video o altro) che si ritiene lesiva della propria dignità esiste. Esso è stato anche opportunamente esercitato in non pochi casi, ottenendo risposte soddisfacenti (cito per tutti il caso noto come vivi-down che ha coinvolto anni fa Youtube).
Questo diritto può anche essere attivato dall’interessato o da chi abbia postato il video o l’informazione. Tuttavia la richiesta è certo molto più solida se formulata da una autorità alla quale l’interessato si sia rivolto, sia essa autorità di polizia o giudiziaria o direttamente il Garante. Infatti se la richiesta proviene da una Autorità di norma il gestore della piattaforma o del sito provvede, entro tempi molto brevi, a rimuovere la notizia o il video, salvo poi seguire lo sviluppo che la vicenda possa avere nelle opportune sedi giudiziarie.
Nel caso della ragazza di Napoli, che sembrerebbe essersi rivolta a un giudice civile, non è chiaro perché il giudice stesso, se avesse ritenuto effettivamente dannosa per la dignità della ragazza, la permanente accessibilità al video, non abbia lui stesso richiesto la rimozione a WhatsApp.
Veniamo al secondo caso, quello del c.d. “diritto all’oblio”.
Si tratta di un diritto che ha avuto la disgrazia di essere definito con un nome accattivante, che lo ha reso molto popolare ma anche molto difficile da capire.
Il nuovo Regolamento europeo di protezione dati, come già la sentenza della Corte di Giustizia sul caso Google Spain, fa riferimento al diritto all’oblio solo con riguardo al diritto di chiedere a un motore di ricerca o a una piattaforma che tramite un link consente di trovare, grazie a una ricerca basata su query, una informazione contenuta in rete, di cancellare il link che rinvia alla notizia che non si vuole sia più accessibile con questa modalità.
Questo diritto è condizionato al fatto che la notizia non sia più di interesse pubblico, e tocca al richiedente dimostrare ciò, come tocca al richiedente indicare con esattezza di quale link esistente sul motore di ricerca si chiede la “delinkizzazione” (o, se si preferisce, la deindicizzazione).
Questo diritto è riconosciuto nell’Unione Europea dal 2014 e, dopo la decisione della Corte di Giustizia sul caso Google Spain, è stato attivato migliaia di volte. In moltissimi casi la richiesta è stata accolta, in molti altri casi è stata respinta.
I Garanti europei hanno analizzato l’attività svolta in questi due anni da Google, esprimendo un giudizio positivo sulla valutazione fatta delle diverse richieste.
Infine il terzo tema: i limiti al diritto di cronaca e informazione legati alla tutela della dignità della persona e della sua riservatezza.
La questione è delicatissima e riguarda direttamente il Garante della privacy, chiamato a vigilare, anche d’ufficio, l’applicazione della normativa italiana di tutela dei dati personali anche alla luce della libertà/diritto di informazione e del rispetto del codice deontologico dei giornalisti.
Fermo restando che la notizia deve essere vera, esatta e non eccedente rispetto alla necessità di informare la opinione pubblica, due sono i pilastri da tenere sempre presenti.
Il primo: una notizia relativa a una persona può (e deve) essere data se, e fino a quando, essa è ragionevolmente di interesse pubblico.
Nel momento in cui cessa l’interesse pubblico a conoscere, la notizia non deve essere più ridiffusa attraverso i media e la stampa, indipendentemente dal fatto che l’interessato ne abbia o meno chiesto la cancellazione.
E’ questo un limite alla riproduzione di una notizia che non ha nulla a che vedere col diritto all’oblio (che deve essere attivato dall’interessato), e che è invece intrinseco al dovere deontologico del giornalista. Giova ripeterlo: la notizia deve essere diffusa solo se è di interesse pubblico e solo fino a che questo interesse permane.
Il secondo pilastro: anche quando una notizia sia di interesse pubblico, e dunque i media abbiano il diritto e il dovere di diffonderla, essa deve sempre essere data assicurando, per quanto possibile, la tutela della dignità delle persone coinvolte. La lesione della dignità e della riservatezza dei cittadini è infatti lecita solo in quanto strettamente indispensabile a consentire all’opinione pubblica una adeguata valutazione dell’accaduto, e sempre limitando al massimo il pregiudizio arrecato.
La vicenda della ragazza di Napoli non ha riguardato solo il mondo digitale e la possibilità o meno di cancellare il video dalla piattaforma di Whats App.
Molti media hanno diffuso la notizia senza sufficiente attenzione alla tutela della dignità della ragazza, per di più ormai morta. Abbiamo assistito a inutili accanimenti informativi su aspetti irrilevanti, come le notizie sulla sua identità anagrafica e su quella della sua famiglia. Molti particolari, anche estranei al fatto, hanno riempito giornali, riviste e ogni forma di comunicazione mediatica.
Vi è più di una ragione per ritenere che, così facendo, si sia violata tanto la normativa privacy quanto i codici deontologici dei giornalisti, sia quello generale che quello relativo a informazione e protezione dei dati personali.
Le eventuali violazioni, su richiesta della famiglia, potranno sempre essere accertate sia dall’Autorità giudiziaria che dal Garante. Quello che però il Garante avrebbe potuto fare quando è esploso il caso, sarebbe stato adottare un provvedimento amministrativo di blocco nei confronti della diffusione di notizie eccedenti rispetto alla necessità di informare, specialmente se lesive della dignità della persona e della sua famiglia.
Forse oramai è tardi per adottare questo provvedimento, previsto esplicitamente dal Codice, perché sarebbe facile dire che si chiudono le porte dopo che i buoi sono scappati. Ciò non fa venir meno però un certo rammarico per il fatto che non sia stato subito tempestivamente adottato, insieme a un comunicato stampa che ricordasse a tutti i pochi principi qui richiamati.
*Professore di diritto costituzionale nell’Università di Torino e alla Luiss-Guido Carli.
Già presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali dal 18 aprile 2005 al 17 giugno 2012.