Quando la sofferenza non è eliminabile con efficaci terapie del dolore ed è dichiarata insopportabile da chi la patisce, chi soffre ha diritto a chiedere ed ottenere l’estrema anestesia: la morte. Anche se si tratta di un minore, come è appena avvenuto in Belgio. Il cardinal Bagnasco, presidente della Chiesa italiana (CEI) dice che “la vita è sacra e deve essere accolta, sempre, anche quando questo richiede un grande impegno”. Giusto, ma qui si parla non di impegno, ma di indicibile sofferenza. Ed non è giusto che a decidere sulla sopportabilità della sofferenza sia non chi la vive, ma un cardinale in salute o chiunque che la giudica da fuori.
Per arrivare all’autodeterminazione del fine vita, occorre una profonda revisione culturale del dolore.
Purtroppo da secoli, viene considerato come il culmine della santità. Al punto che chi non lo pativa per malattie, se lo procurava flagellandosi o indossando strumenti di supplizio, come il cilicio (che sembra abbia usato persino la deputata Binetti). Il dolore non né fine, né mezzo di santità. E’ una condizione congenita dovuta alla nostra fragile biologia e complessa psicologia. Tutta la dottrina cristiana mira a limitarlo, impegnando ogni credente a rimuoverne le cause principali: la malattia, la solitudine, la povertà, l’ingiustizia. Se nonostante questo impegno chi soffre decide di desiderare la morte, occorre lasciarlo andare. Con affetto, rispetto e l’umiltà di riconoscere il limite al nostro aiuto.
Chi rifiuta l’eutanasia, non accetta proprio questo limite, perché è anti-empatico. A chi non vuole vivere per se stesso, non può essere imposto di vivere – e soffrire – per noi, per non ferire la nostra empatia. Sarebbe un sacrificio umano a bassa intensità, ma non meno crudele. E profondamente anti-cristiano.
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21