Molto si è discusso e molto si è polemizzato quest’estate in merito all’occupazione “manu militari” del servizio pubblico da parte del governo, attraverso la sostituzione degli ultimi due giornalisti non allineati ai desiderata di Palazzo Chigi, ossia Massimo Giannini, conduttore del fu “Ballarò”, e Bianca Berlinguer, alla guida del Tg3 fino ai primi di agosto.
Proprio perché conosciamo la complessità di questi argomenti, il significato e il peso delle parole e proprio perché ci battiamo da quasi quindici anni contro ogni forma di asservimento dell’informazione al potere di turno, qualunque sia il suo colore e qualunque siano le sue caratteristiche, non staremo qui a gridare al regime o alla svolta autoritaria né è nostra intenzione mettere in discussione i nuovi direttori, ben coscienti del fatto che in RAI vi sono professionisti di prim’ordine e lieti che quanto meno siano state scelte due risorse interne quali Ida Colucci e Luca Mazzà.
Ciò detto, una cosa è certa: il renzismo sulla RAI è andato ben oltre il berlusconismo. Non ha pronunciato l’editto bulgaro, questo no, ma è riuscito, surrettiziamente, a riportare il servizio pubblico a prima del 1975, quando con la Legge 103 del 14 aprile si pose fine al dominio del governo, aprendo la strada a quella che è stata poi definita “lottizzazione”. In poche parole, sull’onda delle grandi battaglie sessantottine e del processo riformista avviato dalla legge sul divorzio del ’70, il decennio delle conquiste sociali e civili ebbe un momento di svolta quando anche l’azienda di Stato venne liberata dal controllo dell’esecutivo per lasciar spazio a una gestione più collegiale che vide l’assegnazione del secondo canale ai socialisti e, una decina d’anni dopo, quella di Raitre al PCI.
Altri tempi, per carità, ma nell’estate in cui abbiamo detto addio a Ettore Bernabei ci preme ricordare che pure i suoi tredici anni, dal ’61 al ’74, furono caratterizzati da una guida senz’altro democristiana e non scevra da episodi di censura ma, al tempo stesso, rispettosa del pluralismo delle idee, con il coinvolgimento di cronisti di tutte le opinioni politiche e con l’istituzione della “Tribuna politica” condotta da Jader Jacobelli, la quale fece conoscere al grande pubblico il leader del PCI Togliatti, cosa che fu rimproverata all’allora direttore generale, in anni segnati dalla Guerra fredda e dalla “conventio ad excludendum” a danno dei comunisti.
Con Renzi la RAI torna ultra-governativa, con la non piccola differenza che oggi non c’è più la classe dirigente di allora: non c’è lo stesso senso dello Stato, lo stesso rispetto per le istituzioni, la stessa comprensione del valore, dell’importanza e del ruolo del servizio pubblico e si è persa persino la nozione di cosa sia la RAI e di quale debba essere la sua funzione nel Paese, al punto che siamo al cospetto di un ibrido, di un’azienda pubblica di nome e privata di fatto, un miscuglio di tv pedagogica e televisione commerciale, con il risultato che, a parte poche, lodevoli eccezioni, riescono male entrambe le cose, risultando le prime particolarmente noiose e le seconde assolutamente inguardabili.
E la crisi non potrà che aggravarsi: non perché ci stia antipatica l’attuale dirigenza e nemmeno perché è stata scelta apposta per garantire le praterie alle ragioni del SÌ e spazi irrisori a quelle del NO; il problema è che è stata scelta senza avere in mente un progetto chiaro di cosa si intenda per servizio pubblico, di quale debba essere il suo ruolo nella società del Ventunesimo secolo, stretta nella morsa della globalizzazione, del terrorismo e dell’evoluzione tecnologica più repentina che si ricordi a memoria d’uomo, né tanto meno è stato ancora reso noto quale debba essere l’interazione fra i differenti linguaggi, come debba avvenire la transizione dall’analogico al digitale e come rapportarsi con i social network e con gli spazi comunicativi frequentati dalle nuove generazioni.
In poche parole, l’azione del governo, come sulle altre riforme, prime fra tutte quelle istituzionali e costituzionali, è improntata anche su questo versante al presentismo e alla mera gestione dell’esistente, seguendo la filosofia del giorno per giorno, del chissà se va, dell’assicuriamoci una dirigenza non ostile, per non dire compiacente, il che potrebbe suonare irrispettoso, e vediamo se riusciamo a tirare avanti ancora qualche mese, non tenendo in alcun conto che in autunno dovrà essere rinnovata la concessione fra lo Stato e la RAI (che, in realtà, avrebbe dovuto essere rinnovata a maggio) e che non siamo di fronte a un’azienda come le altre ma alla principale fabbrica culturale del Paese.
Un’operazione miope, oltretutto, come testimonia la lenta ma inesorabile migrazione di un certo tipo di pubblico verso La 7 e Sky, con la sola Rai News 24 a tenere alto l’onore della RAI quando si avverte il bisogno di un servizio pubblico autorevole e presente.
Non solo: la complicata vicenda che lega Mediaset ai francesi di Vivendi, con il caso Premium e la gestione complessiva del Biscione a tenere banco dalle parti di Cologno Monzese e in casa Berlusconi, ora che il Cavaliere sembra essersi definitivamente fatto da parte sia a livello politico sia dal punto di vista sportivo, questa complicata trattativa che rischia di concludersi sotto una valanga di carte bollate sta rendendo assai più difficoltosa la nascita del duopolio privato Mediaset-Sky che Renzi, stando a ciò che sostengono i maligni, ha sempre auspicato, fin da quando si è insediato a Palazzo Chigi, lasciando alla RAI il ruolo di maestrina della Buona scuola, con tanti saluti a coloro che non possono permettersi di pagare un abbonamento oneroso come quello richiesto dalle tv a pagamento.
Ciò che non ha capito il nostro eroe è che, nonostante i sistematici tentativi di indebolirla, controllarla e assoggettarla a un potere politico sempre più fragile e, per questo, sempre più arrogante, terrorizzato e bisognoso di una compiacenza di crescente intensità, nonostante questo, nel servizio pubblico operano ogni giorno fior di professionisti, in grado di realizzare programmi come l’inchiesta di “Presadiretta” su Giulio Regeni o la docu-fiction “Io sono Libero” dedicata alla memoria di Libero Grassi.
E veniamo alla terza grande operazione riguardante il mondo dei media cui abbiamo assistito quest’estate, ossia l’acquisto di RCS ad opera di Urbano Cairo, già proprietario di La 7, del Torino e di una casa editrice specializzata in riviste commerciali, per lo più di genere femminile.
Chi temeva che avremmo visto in edicola un “Corriere della Sera” ridotto a una dépandance di “Diva e Donna” può dormire sonni tranquilli: Cairo è un furbacchione come tutti gli editori che si rispettino ma, al tempo stesso, è un editore puro che ha già dimostrato a La 7 di avere a cuore il valore del pluralismo e della libertà d’informazione e che, al contrario di ciò che temono alcuni osservatori, potrebbe costituire un contraltare nei confronti dell’operazione “Stampubblica” portata avanti da De Benedetti e dalla famiglia Agnelli, quasi a voler costituire un polo informativo in buoni rapporti con il governo dopo aver trascorso, specie nel caso di “Repubblica”, vent’anni all’opposizione di Berlusconi.
Una RAI renzizzata, un polo informativo indipendente contrapposto a uno filo-governativo e una Mediaset in bilico fra le pulsioni nazareniche di Confalonieri e lo scetticismo di un Berlusconi rimasto scottato dalla spregiudicatezza e dal mancato rispetto di qualunque accordo da parte dell’interlocutore: questo è il quadro che si presenta ai nostri occhi all’inizio di questa nuova stagione, a dimostrazione di quanto nessuna delle suddette operazioni sia priva di conseguenze politiche e di come soprattutto la vicenda di Cairo possa essere interpretata dai sostenitori del NO e da quanti considerano in maniera negativa l’avventura renziana alla stregua di un’ancora di salvezza alla quale aggrapparsi, nel tentativo di dar vita a un’opposizione reale e non populista.
Il nostro auspicio, al contrario, è che l’universo di Cairo continui a svolgere al meglio il proprio dovere, che si tenga fuori da qualsivoglia disputa politica e che dia voce a tutte le opinioni, trasformandosi, sia nella sua versione televisiva che nella sua versione cartacea, in quel grande polo d’informazione indipendente del quale avvertiamo più che mai il bisogno.
Una cosa, tuttavia, è certa: a quarant’anni dalla storica sentenza della Corte costituzionale che liberalizzò la trasmissione via etere in ambito locale e a trent’anni dall’uscita di una rivista complessa e da combattimento intellettuale quale “MicroMega”, siamo costretti a constatare che il renzismo non è un fuoco di paglia e che è riuscito a modificare nuovamente l’assetto dei veri poteri che si combattono oggi in Italia, più che altro attraverso un travaso di consensi, appoggi e sostegni interessati, dovuti, come spiegò bene Bersani in un’intervista rilasciata qualche mese fa a “il Fatto Quotidiano”, alla necessità dei medesimi di riorganizzarsi e di adeguarsi alla nuova stagione.
Per questo, oggi più che mai, è doveroso rendere concretamente omaggio ai due anniversari che ho appena ricordato, sostenendo gli spazi di libertà che già ci sono e creandone di nuovi, affinché questa sfida tra potentati, che coinvolge drammaticamente anche il servizio pubblico, il quale dovrebbe invece restare al di fuori di queste logiche, non si trasformi nell’effettivo terreno di contesa politica, lasciando al contesto ufficiale il compito di blaterare in televisione e scannarsi dalla mattina alla sera sul nulla mentre chi tira i fili da dietro le quinte ha già assunto le decisioni che contano.