Ora che tutto è finito, ora che abbiamo la certezza che il passato non può tornare e che Berlusconi non metterà mai più piede a Palazzo Chigi, se non come ospite d’onore, ora, in occasione del suo ottantesimo compleanno, è doveroso riflettere, a mente fredda e nella maniera più analitica possibile, su ciò che questa figura ha rappresentato per il nostro Paese.
È stato un avversario, non c’è dubbio: il più duro, il più detestato, quello contro cui abbiamo organizzato manifestazioni e sit-in, piazze, cortei, iniziative, di cui abbiamo contestato quasi tutto e contro cui ci siamo scagliati, a ragione, denunciandone la deriva illiberale e le leggi bavaglio e vergogna, le censure nei confronti dei giornalisti e degli artisti sgraditi, i lodi, le norme “ad personam” e le compagini di governo comprendenti soggetti che facevano del razzismo la propria cifra politica o che si permettevano di definire “un rompicoglioni” un giuslavorista assassinato dalle Nuove Brigate Rosse; senza dimenticare le gaffes, le figuracce internazionali, la barbarie del G8 di Genova, la famigerata legge Gasparri sulla RAI, gli attacchi alla Costituzione e il tentativo di stravolgerla, fortunatamente respinto dal 61 per cento degli italiani nel 2006, fino al tristissimo epilogo a base di “cene eleganti” e scandali d’ogni sorta che hanno trascinato nel fango un personaggio profondamente discutibile e, infine, indifendibile persino agli occhi di coloro che, inizialmente, si erano lasciati abbagliare dalla promessa di una rivoluzione liberale, in verità mai uscita dalla celebre videocassetta con la quale ebbe inizio la sua avventura politica.
Berlusconi e l’iscrizione alla P2, Berlusconi e i rapporti con personaggi legati alla mafia, Berlusconi e l’introduzione del populismo spicciolo in politica, Berlusconi e l’abbandono di ogni correttezza formale e istituzionale, Berlusconi e la mutazione genetica, in peggio, del nostro Paese, Berlusconi e l’attuazione di un progetto iniziato negli anni Ottanta dal duo Reagan-Thatcher e, per quanto riguarda l’Italia, da Bettino Craxi, con l’introduzione di uno stile di governo estremamente leaderistico e personalistico che ha finito con l’annullare il confronto con le forze sociali e si è sublimato poi nel pessimo sistema maggioritario, Berlusconi e il conflitto d’interessi, al tempo stesso un punto di forza e un tallone d’Achille per l’uomo che ne è divenuto l’emblema, Berlusconi e le sue innumerevoli contraddizioni e incoerenze, a cominciare dalle alleanze improbabili con i secessionisti padani al Nord e con i missini ultra-nazionalisti al Sud: è stato tutto questo e molto altro ancora.
E tuttavia è stato anche uno spaventoso alibi per una sinistra che, progressivamente, in questo ventennio, ha smarrito se stessa e i suoi valori storici, arrivando a rinnegare cultura, ideali, tradizioni, simboli e punti di riferimento e trasformandosi, a livello globale ma nel nostro Paese in particolare, nella fedele esecutrice dei dogmi liberisti che hanno ridotto allo stremo le categorie sociali più deboli.
Perché la verità, anche se a qualcuno dà fastidio sentirselo dire, è che in questi vent’anni ci siamo berlusconizzati di giorno in giorno, fino al punto di introiettare i suoi toni, i suoi modi, il suo stile di governo, i suoi non rapporti con i sindacati, la sua dialettica aspra, le sue caratteristiche “volgari e gaudenti”, la sua mancanza di rispetto per gli avversari, il suo costante tentativo di liberarsi dai sacrosanti vincoli presenti in ogni democrazia occidentale che si rispetti e, infine, ed è l’aspetto che induce maggiormente a riflettere, la sua feroce avversione nei confronti del mondo della cultura e del sapere, per sua natura poco incline a fare il tifo e ad esprimere posizioni acritiche e dotato di una coscienza civica, e direi anche politica, più spiccata che altrove.
Forse è per questo che persino “l’Espresso”, analizzando la sua biografia e i contrasti avuti con lui negli ultimi trent’anni, sia pur velatamente, ha manifestato una sorta di nostalgia: Berlusconi, infatti, a differenza dei suoi fastidiosi epigoni, nel bene e, soprattutto, nel male, aveva creato un equilibrio, l’unico vero bipolarismo che sia mai esistito in Italia.
Perché noi non siamo mai stati, non siamo e non saremo mai una democrazia anglosassone: non avremo mai quel carattere e quelle modalità di contrapposizione improntate a una sorta di “understatement”: siamo un Paese sanguigno, passionale, nel quale tre amici che si ritrovano al bar fondano un partito e, se sono in quattro, uno dà vita a una scissione, dunque l’opposto delle assurde predicazioni bipolari o, peggio ancora, bipartitiche, degli appelli al “voto utile” e delle altre fole sulle quali si è retto questo tragico ventennio di scontro forzoso, sangue e arena, dal quale usciamo tutti più poveri, sul piano morale e materiale.
Berlusconi, in qualche modo, ci manca anche perché costituiva un avversario estremamente comodo: contro di lui abbiamo fondato giornali e associazioni, abbiamo trovato simpatiche pure persone che, in realtà, disprezzavamo e imbarcato, in coalizioni caravanserraglio, partiti e partitini che non avevano nulla in comune se non l’avversione nei confronti del rivale impresentabile ed estraneo alle regole del confronto democratico. Grazie a lui, siamo riusciti persino a mascherare la frattura storica fra i partiti della sinistra tradizionale e i movimenti civici: uno strappo che risale agli anni Settanta e che da allora non si è mai davvero ricomposto, fino all’esplosione definitiva avvenuta con la nascita del Movimento 5 Stelle e l’inizio di una contrapposizione totale e senza esclusione di colpi fra due mondi che non si possono vedere da circa quarant’anni.
Solo quando l'”uomo nero” è uscito finalmente di scena ci siamo resi conto che noi, in questi vent’anni, non solo non abbiamo costruito quasi niente ma ci siamo progressivamente uniformati ai suoi cliché, mancando di quella cultura mazziniana e di quell’intransigenza azionista il cui ultimo sostenitore è stato il compianto presidente Ciampi, nel dileggio sotterraneo di tanti sedicenti compagni che, al contrario, trovavano eccessive e tendevano a isolare le battaglie di quanti si rifiutavano di accettare uno status quo pericoloso e insostenibile e mettevano in guardia innanzitutto la sinistra dalla propria deriva etica e politica.
Disse Beniamino Andreatta, dopo la prima vittoria di Berlusconi nel ’94, che al giro successivo si sarebbe candidato anche Pippo Baudo e sarebbe stato l’alfiere del centrosinistra: un’analisi aspra, malinconica, come spesso erano le riflessioni lungimiranti di Andreatta, nel cui intento provocatorio tuttavia era racchiuso il senso di un destino cui siamo andati incontro con beata inconsapevolezza e drammatica complicità, assecondando senza battere ciglio una tragicomica autobiografia della Nazione che ha mostrato al mondo i nostri aspetti peggiori e segnato a tal punto un’epoca che adesso facciamo fatica a ripartire.
E il punto è che i primi a non stimare Andreatta non erano i berlusconiani, la cui antipatia nei confronti della sua anima ulivista, come del resto verso quella di Prodi, è nota e abbastanza scontata; erano, più che mai, gli stessi finti compagni, berlusconizzatisi con l’andare del tempo, che prima hanno infranto il sogno liberale di Occhetto e poi quello europeista dei fondatori dell’Ulivo, preferendo il cedimento, la resa culturale e una recita stantia che si è conclusa, dopo tanti anni di sentimenti contrastanti, inseguimenti e un continuo uniformarsi, con la suprema ipocrisia di una predicazione progressista seguita da un’azione più berlusconiana del berlusconismo rampante degli anni d’oro. Cuore a sinistra e portafoglio a destra, le parole di papa Francesco e gli atti di chi, sostanzialmente, si preoccupa poco o nulla della dignità umana e delle ragioni della vita stessa. Così si è persa un’intera generazione e così si è formata la successiva, all’insegna di una sorta di anti-politica d’élite di cui oggi stiamo pagando a caro prezzo le conseguenze.
Per tutti questi motivi, in occasione dell’ottantesimo compleanno dell’ex Cavaliere, siamo costretti ad ammettere che sì, almeno un po’ lo rimpiangiamo, in quanto se non altro era più autentico dei suoi successori. E questa è la nostra peggiore sconfitta: collettiva e senza possibilità d’appello.