“Il giudice di ogni tempo deve essere ed apparire indipendente, e tanto può esserlo ed apparire ove egli stesso lo voglia, e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non tradire il suo mandato”. Sono le parole di Rosario Livatino, il giudice ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990 in un agguato mafioso sul viadotto lungo la Agrigento-Caltanissetta mentre si recava in Tribunale. Morirà proprio per la correttezza, l’indipendenza e la fedeltà al suo giuramento che lo portò a condurre numerose inchieste di mafia sottraendosi ai tanti condizionamenti che puntualmente ed energicamente rifiutava.
Rosario Livatino fu la prima vittima illustre di una stagione, quella degli anni 90, in cui morirono personaggi, servitori dello stato, del calibro di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Libero Grassi, Antonino Scoppeliti… Per molti di questi delitti sono tuttora ignoti gli esecutori materiali e i mandanti mentre per quello di Livatino, nel 2001, la Cassazione, grazie alle rivelazioni di un testimone di giustizia ha confermato la condanna all’ergastolo per Salvatore Gallea e Salvatore Calafato, accusati di essere i mandanti dell’omicidio. Secondo la sentenza, Livatino viene ucciso perché “perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia”.
Tuttavia è fondamentale ricordare che Livatino si era fatto conoscere per aver scoperto e denunciato, all’inizio della sua carriera, gli intrigati rapporti tra mafia, politica e massoneria e per aver avviato le indagini su quella che sarebbe più tardi esplosa come la Tangentopoli siciliana.
“Giudice Ragazzino”, fu l’appellativo datogli, con malcelato disprezzo dall’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che però smentì di essersi riferito a lui. Dodici anni dopo…
Per Livatino la ricerca della giustizia non era solo il compito di chi faceva il suo mestiere ma della società intera. “Riformare la giustizia in senso soggettivo ed oggettivo – affermava – è compito non di pochi magistrati, ma di tanti: dello Stato, dei soggetti collettivi, della stessa opinione pubblica. Recuperare infatti il diritto come riferimento unitario della convivenza collettiva non può essere, in una democrazia moderna, compito di una minoranza”.