La morte di Ermanno Rea, avvenuta la scorsa notte a Roma, lascia un vuoto che tutte le sue grandi opere non possono lenire. Giornalista e scrittore, ma anche uomo politico nel senso più alto, impegnato nella sinistra di cui è stato però anche narratore critico, Rea ha indagato e descritto l’anima insieme alla vita quotidiana della sua città Napoli, e di tutto il sud Italia, come riusciva solo lui a vederlo dall’interno, dimenticato, destinato all’abbandono, alla “Dismissione”, come titola forse la sua opera più dura.
Un libro-monumento che, pur prendendo le mosse dalla chiusura dell’Italsider di Bagnoli e dalla dismissione, appunto, dell’area industriale napoletana, racconta la fine di un’epoca storica, quella della grande industria e con questa la fine della dignità dell’operaio, come classe e come individuo soggetto protagonista della sua stessa produzione. E’ stata appunto tutto questo la fine del Novecento che potremmo dire di aver ignorato, se non ci fosse stato Rea, quasi quindici anni fa, nel 2002, a ricostruire l’epica operaia e la sua caduta per mano della “modernità”.
Aspettiamo con ansia di poter leggere presto l’opera a cui ha lavorato fino alla fine: “Nostalgia” dedicato al suo quartiere d’origine, il rione Sanità, che in una delle ultime interviste lo scrittore definiva “quartiere meraviglioso infestato da giovani impazziti”, la cui unica speranza è nel lavoro di un prete di strada caro a Rea, don Antonio Loffredo, che quei giovani cerca di riscattare dalla follia della violenza. Anche questo un piccolo “Mistero di Napoli”.