BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Schwazer, Donati e lo spirito olimpico

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A pochi giorni dalla conclusione delle Olimpiadi di Rio, sembra doveroso chiedersi che cosa rimarrà delle tante emozioni e delle bellissime immagini, dei colori sfavillanti e dei suoni provenienti dalle piste e dagli impianti sportivi brasiliani che, in queste ultime settimane,si sono riversati dai televisori nelle case di tutto il mondo.
Abbiamo visto e sentito davvero di tutto in questi giorni: sfide ad alto livello e clamorosi errori, prestazioni al limite delle possibilità umane e incredibili delusioni sul filo di lana, competizioni avvincenti e partite scontate fin dal fischio di inizio, finte lacrime di gioia e vere grida di dolore.
Tutto è stato sublimato nel nome dello sport e, soprattutto, del fantomatico spirito olimpico. Eppure qualcosa è sembrato finto e stonato, come un rumore di sottofondo che, seppure in lontananza,impedisca di gustare fino in fondo quello cui stai assistendo.
Le contraddizioni, infatti, non sono mancate: la principale è sicuramente mettere sullo stesso piano le stelle del basket americano o quelle del tennis mondiale –dello sport professionistico in genere – coni tanti giovani e meno giovani che fanno sacrifici, anche e soprattutto economici, per fare sport, allenarsi e così garantirsi la partecipazione ai giochi olimpici. Da qualche decennio però si è consolidato come un dato di fatto la commistione tra sport professionistico e quello amatoriale e, se presa a giuste dosi e con i doverosi distinguo, l’Olimpiade ha un fascino particolare, proprio perché è in grado di garantire freschezza e sorpresa in tante discipline, con illustri sconosciuti che danno filo da torcere ai campioni affermati.
E che dire poi della retorica nazionalistica che prende tutti, ma proprio tutti, quando a scendere in campo sono gli atleti del proprio paese? Noi italiani non siamo secondi a nessuno, anzi siamo maestri nello sport di sventolare il tricolore in occasione delle vittorie degli azzurri e poco importa se non sappiamo la differenza tra sciabola e fioretto o tra carabina e skeet. Quando vediamo sul podio un italiano e sentiamo risuonare l’inno di Mameli, allora ci riscopriamo tutti patrioti – al di là delle appartenenze politiche – e la lacrima diventa d’ordinanza quando, fieri, esponiamo la bandiera sui balconi delle nostre case…
Nel tracciare un bilancio di questi giochi però vogliamo andare controcorrente, perché ci piacerebbe che Rio non fosse ricordata per gli sprint vincenti di Bolt o per i volteggi della ginnasta Biles e neppure per le vittorie targate Italia.

Noi vorremmo, anzi vogliamo, celebrare le Olimpiadi di Rio come quelle in cui a vincere sono stati Alex Schwazer e Sandro Donati.
La loro è stata una gara vincente, nonostante un risultato finale negativo – la squalifica ad otto anni per il marciatore – perché hanno dimostrato che nella vita ci sono delle battaglie che vale la pena di combattere, a prescindere dal risultato, perché è proprio nel battersi che si manifesta in modo completo e autentico la dignità umana. È in questo genere di competizioni che emerge lo spessore dell’uomo, prima ancora dell’atleta.
E quando una gara è segnata, anzi pesantemente viziata fin dall’inizio, come lo era nel caso della vicenda Schwazer, decidere di scendere in campo assume un ulteriore valore.
Eh sì, è inestimabile il valore di chi, come Alex Schwazer, decide di battersi fino alla fine, sapendo che, comunque vada, è stato deciso di farti pagare quell’insolenza – imperdonabile per alcuni settori “dopati” dello sport mondiale – di voler ripartire dal proprio errore per ripresentarsi, pulito, alla prova della strada e del cronometro, unici arbitri credibili.
E altrettanto inestimabile è il valore di chi, come Sandro Donati, ha raccolto la sfida di Alex per affermare ancora una volta il valore di uno sport pulito. Una nuova battaglia per Donati, dopo le tante che nei decenni precedenti lo hanno reso inaffidabile per un sistema dove il doping di Stato è tutt’uno con il carrozzone dello sport mondiale e, dietro il traffico di sostanze dopanti, si stagliano minacciose le ombre del crimine organizzato di stampo mafioso.
Un sistema che ha nell’Olimpiade la sua vetrina principale e non tollera intrusioni.
Sono stati incoscienti i due? Hanno pagato un gesto di estrema presunzione?
No, al contrario: dopo aver visto l’incredibile corso che la cosiddetta giustizia sportiva ha assegnato alla vicenda del marciatore altoatesino, siamo convinti che i due abbiano fatto fino in fondo la loro parte, senza sbavature ed eccessi. I buchi, le falsità, le contraddizioni che costellano questi ultimi mesi, tra analisi e controanalisi, sono ora affidati al lavoro della magistratura ordinaria. Forse da lì avremo qualche risposta, almeno speriamo di averne.
Lo sport mondiale, intanto, ha perso un’occasione per dimostrare di voler tornare alle origini, a quello spirito olimpico tanto declamato in questi giorni. Non c’è stata partita o gara in cui non si sia richiamato il famigerato spirito olimpico a garanzia del gesto atletico e dello sforzo degli sportivi. Un trionfo di retorica e di buonismo che, lungi dal fare il bene dello sport, si è sgonfiato fragorosamente di fronte al modo indegno in cui sono stati trattati Schwazer e Donati.
La sorte di Schwazer e Donati infatti era segnata: dovevano pagare entrambi e il mondo intero doveva vedere che fine fanno quelli, come loro, che osano mettere in discussione il sistema. I due ribelli andavano messi in riga, una volta per tutti, sotto le telecamere mondiali convocate a Rio per i giochi olimpici.
Ecco, quando la gara è truccata – e lo sai che è truccata – il tuo metterti in gioco assume il significato del gesto estremo che punta a far vedere che il re è nudo, che il sistema è marcio e non è in grado di autoriformarsi dall’interno.
Ecco perché Alex Schwazer e Sandro Donati hanno vinto. Ecco perché di loro, dopo questi giochi olimpici, lo sport, non solo italiano, ha ancora bisogno.
Siamo certi che, superata la comprensibile amarezza di questi giorni, i due sapranno rimettersi in marcia. In tanti ci sperano. In tanti ne hanno bisogno, soprattutto i più giovani, ai quali va spiegato come lo spirito olimpico, quello vero, sia incarnato dalla storia di Alex e Sandro.

*Fonte: Liberainformazione.it


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