È la Rai, bellezza. Il valzer di nomine che infiamma il dibattito politico di inizio agosto non ha nulla a che vedere con il servizio pubblico. Niente di nuovo sotto il sole, viene da dire. Solo la riproposizione di schemi e liturgie del passato. Lottizzazione, per usare il termine coniato da Alberto Ronchey, senza un progetto, senza una missione riconoscibile e senza una visione di futuro. Sia chiaro: non sono in discussione i titoli e la professionalità dei nuovi direttori. A loro va il più caloroso in bocca al lupo, accompagnato dall’augurio di non finire vittime, prima o poi, delle stesse logiche che hanno portato alla rimozione dei loro predecessori.
Il problema è di metodo. Le nomine decise a maggioranza dal cda rappresentano un passo indietro rispetto a piani editoriali annunciati, ma mai messi a punto e neanche approvati. E non si dica che i giornalisti Rai non fossero pronti al confronto. L’alibi della contrapposizione fra riformisti e conservatori non regge più. Anche perché la conservazione è tutta nel gruppo dirigente della Rai. Il referendum promosso dall’Usigrai ha infatti dimostrato che esiste un’altissima disponibilità dei giornalisti del servizio pubblico radiotelevisivo al confronto sulla riforma, anche profonda,dell’offerta informativa. Peccato, però, che l’azienda non si sia mostrata capace di accettare questo confronto, scegliendo la scorciatoia dell’occupazione di posti chiave a prescindere dal progetto. Un’operazione di cortissimo respiro, in linea con la peggiore tradizione della Rai, che in stagioni neanche troppo lontane scatenò anche il popolo dei girotondi e che oggi non può non provocare da parte del sindacato dei giornalisti, a tutti i livelli, un’eguale e ferma presa di distanze. Si chiama coerenza. Qualità che latita ai piani alti di viale Mazzini, dove, ai vertici come in cda, ai proclami di innovazione e di discontinuità rispetto al passato fanno seguito provvedimenti all’insegna della restaurazione. Ieri come oggi, l’obiettivo è sempre lo stesso: provare a imporre la cultura del pensiero unico, la negazione dei principi che devono ispirare il servizio pubblico.
Eppure le premesse erano altre. Fu il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ad annunciare, neanche troppo tempo fa, l’urgenza di un progetto di riforma che liberasse la Rai dal controllo dei governi, delle maggioranze parlamentari e dei partiti di riferimento. Nessuno ha visto quel progetto, ma bisogna ripartire da lì. Anche perché la dipendenza del servizio pubblico radiotelevisivo dalla politica è una delle concause – non la sola, ovviamente – che fa precipitare l’Italia nelle classifiche internazionali sulla libertà di stampa.
Oggi come ieri, il problema è come garantire il pluralismo dell’informazione, che non è né può essere inteso soltanto come un valore di natura commerciale, ma va tutelato per quello che è: un pilastro di ogni democrazia compiuta e matura. L’occupazione del servizio pubblico non ha niente a che fare con il pluralismo. Per questa ragione, FNSI e Usigrai non possono tacere e, coerentemente con la loro storia, ritengono che sia giunto il momento di porre mano ad una riforma radicale delle leggi di sistema. A cominciare dal Sistema integrato delle comunicazioni – così com’è è di fatto una barzelletta – passando per una normativa antitrust, oggi assente, in linea con i parametri europei, fino alla riforma della Rai per renderla autonoma dai governi in carica e dalle forze politiche.
È evidente, allora, che la sfida riformatrice non riguarda soltanto la Rai, ma tutto il sistema dell’informazione. Anche per questa ragione, la FNSI insiste per l’approvazione in tempi brevi del ddl di riforma dell’editoria e, in tal senso, promuoverà un’altra Giornata di mobilitazione nazionale il 12 settembre prossimo, alla vigilia dell’esame del ddl nell’aula del Senato. Senza quelle norme sarebbe a rischio anche la sopravvivenza di decine di testate: sarebbe un colpo durissimo al pluralismo. Il passaggio successivo, però, non potrà che essere una grande mobilitazione per cambiare le leggi di sistema e rendere più trasparenti gli assetti proprietari dei mezzi di comunicazione, evitare le concentrazioni, restituire il servizio pubblico alla sua missione originaria. In caso contrario, vincerà sempre la lottizzazione. A prescindere dal colore dei governi e delle maggioranze parlamentari.