Rai, occupazione e non servizio pubblico

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Il caldo fa brutti scherzi, lo sappiamo. Allora può capitare di immaginare un servizio pubblico radiotelevisivo che intenda la sua missione come servizio agli utenti che pagano il canone. A tutti gli utenti ovviamente. E pensa che questo servizio sia articolato su varie forme di comunicazione, dall’informazione propriamente detta alla documentaristica, dall’intrattenimento leggero all’education, dalla divulgazione scientifica allo sport, dalla fiction al cinema, dai talk a qualche reality intelligente, programmi comici, musica classica e leggera, arte, formazione di supporto a scuole e università, interazione costante con il web.
Cose banali forse, ma se fatte bene molto richieste dagli utenti della Rai, se il questionario del MISE dice il vero e se i documenti scaturiti dalle associazioni partecipanti a quella consultazione dicono il vero.

Per realizzare una missione occorrono responsabili che formulino piani editoriali coerenti con la missione stessa, individuino i migliori prevalentemente all’interno dell’azienda per conseguire quegli obiettivi, ragionino con loro della missione e del come attuarla e li nominino a capo delle varie strutture con un mandato comunque predeterminato al termine del quale si farà il bilancio dei risultati ottenuti.

La televisione ancora oggi in Italia più di qualunque altro medium, web incluso, influenza la formazione culturale, politica, sociale, ideale delle varie generazioni che si succedono nel corso degli anni. Oggi c’è il web a contrastare questo potere della TV, è indubbio, ma nel nostro paese – agli ultimi posti in Europa con Portogallo e Grecia per uso e conoscenza di internet – la TV è sempre sovrana.

Non importa se in parte non è dimostrabile un’equazione diretta fra voto a un partito e programmazione televisiva, è l’umus di una società che viene fertilizzato o deteriorato dalla televisione. Le date fondamentati per la storia della TV della Rai sono sempre quelle: la riforma entrata in vigore nel 1976 con la seconda rete e il TG2 guidato da giornalisti e uomini di cultura socialista (ma anche tanti di formazione comunista), il 1987, quando Biagio Agnes decise che una parte di televisione dovesse essere guidata dal PCI, e la TV dopo il maggioritario, che di fatto comincia con il primo governo Berlusconi nel 1994.
A voler essere di manica larga nell’interpretare in rapporto al presente un passato che ovviamente è diverso, possiamo dire, sulla base dei dati oggettivi, che dal 1987 ad oggi non c’era mai stata una TV della Rai che avesse come direttori soltanto persone riconducibili al governo. Da oggi è così. Nessuno è in grado di negare con i fatti questa semplice constatazione. Non ci sono precedenti in 30 anni.

C’è stato il tempo degli “editti bulgari” e della presa di potere di Berlusconi, presidente del consiglio e proprietario di altre tre televisioni, ma anche in quel tempo l’opposizione, anche se a fatica, aveva mantenuto alcuni direttori non allineati con la politica governativa. Sia chiaro, tra i direttori che oggi guidano la TV di stato ci sono alcuni ottimi professionisti con invidiabili curricula. Ma è la manovra del 4 agosto 2016 che segna un momento che rischia di essere di non ritorno anche quando, come è logico, cambieranno i governi. Una manovra che contraddice tutto ciò che il governo e i vertici della Rai avevano promesso a parole, una manovra che riporta la Rai molto indietro e sempre più lontana dalla modernità di una media company – il feticcio che da qualche anno si sbandiera per poi planare sull’occupazione più becera – una manovra che ha un obiettivo palese come il condizionamento dell’informazione sul referendum costituzionale (la TV influisce di più su un referendum che sulla scelta di un partito), una manovra che rende inutile la discussione sul contenuto della nuova convenzione stato-Rai almeno per il periodo in cui resteranno in carica questi vertici aziendali. Qualsiasi cosa sarà scritta in quella convenzione non potrà essere attuata da questo gruppo dirigente che non ha dimostrato alcun intento innovativo ma solo l’esecuzione del mandato della normalizzazione totale di un’azienda che dovrebbe avere un solo editore: il suo pubblico, peraltro pagante.


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