L’ultima, drammatica scoperta riguarda settantadue fosse comuni fra Siria e Iraq. L’orrore non è neppure ipotizzabile ancora: si va da un minimo di cinquemila corpi fino a un massimo di almeno quindicimila, tutti nel territorio abbandonato dal Califfato. Sicuramente solo in Siria le fosse sono diciassette, documentate. E’ lo specchio di una guerra senza regole che ha devastato un Paese sfortunato dove è difficile capire cosa c’è oltre il dolore e le macerie, dove in tanti si sono accaniti con una ferocia senza limiti. Come il massacro di Deir el Zour, a fine giugno. Trecento vittime dichiarate, fra cui cinque giornalisti. Perché naturalmente le prime vittime, come in tutte le guerre, sono i reporter, colpevoli solo di testimoniare. Talmente tanti che non si riesce neppure a stabilirne il numero. Ma non dovrebbero essere meno di 250 soltanto negli ultimi anni. Decapitati, oppure giustiziati con colpi alla testa, torturati a morte, sequestrati e mai tornati a casa. Nove soltanto nel 2016, fra cui – a gennaio – Ruqia Hassan accusata di essere una spia. Raccontava su internet la vita quotidiana degli abitanti di Raqqa, utilizzando i social network sotto lo pseudonimo di Nissan Ibrahim. Aveva anche riferito dei continui bombardamenti aerei della coalizione internazionale proprio nella città dove, nell’ormai lontano luglio del 2013, è stato rapito padre Paolo Dall’Oglio. “Quando quelli di Isis mi arresteranno e uccideranno, mi andrà bene perché sarà meglio così piuttosto che vivere umiliata da loro”, aveva scritto. E poi l’ultimo post: “Andate avanti e tagliate internet, i nostri piccioni viaggiatori non si lamenteranno”, aveva ironizzato. Probabilmente Ruqia, così giovane e così coraggiosa, è stata uccisa nel settembre scorso, ma la notizia è stata ufficializzata solo a gennaio.
Ma quanti altri citizen-journalist sono stati uccisi nel silenzio? Lavoravano per documentare i combattimenti nelle loro città natali, operatori radio e tv che lavoravano per i media affiliati al governo o alle opposizioni e un gruppo di corrispondenti della stampa straniera, tra cui un reporter di Al-Jazeera, Mohamed al-Mesalma, freddato da un cecchino. Poi Alì Yousef e Majdd Dirani a febbraio, Osama Jumaa e Khaled al Essaa a giugno e i cinque della strage a Deir el Zour: Samer Mohamad al-Aboud, Mahmoud Shaaban al-Haj Kheder, Mohamad Abdulkader al-Essa, Mostafa Haj Hasa e Sami Jodat al-Rabah. Ottantotto solo negli ultimi cinque anni: 21 nel 2012, 17 nel 2013, 15 nel 2014, 13 nel 2015. Fino ai nove morti di quest’anno (che salgono a dodici con i collaboratori) così da portare la Siria al secondo posto nella graduatoria dei Paesi più pericolosi per i giornalisti, accanto al Messico dei narcos e solo con una vittima in meno di Afghanistan e Iraq. Guerre lontane ma ancora vicinissime. Ma questo è un altro discorso.