Il compianto storico britannico Eric Hobsbawm, occupandosi del Novecento in un saggio di dimensioni monumentali, parlò non a caso di “Secolo breve”, identificando l’inizio del Novecento con la tragedia di Sarajevo da cui prese avvio il primo conflitto mondiale e la sua fine con il crollo dell’Unione Sovietica.
Era l’agosto del 1991 quando la frangia più conservatrice del PCUS, composta dal capo del KGB, vari ministri e alti funzionari, approfittando della vacanza di Gorbačëv nella dacia presidenziale in Crimea, ordì e provò a mettere in atto un colpo di Stato, al fine di far naufragare il processo riformista avviato dal visionario leader sovietico con la perestrojka e la glasnost.
Krjučkov, Pugo, Jazov, Pavlov, Baklanov, Bodin e Janaev: questi i nomi dei principali responsabili del fallito golpe, rispettivamente capo del KGB, ministro degli Interni (poi morto suicida), ministro della Difesa, premier, uomo del complesso militar-industriale, capo dello staff di Gorbačëv e talpa interna e, infine, il vice-presidente dell’URSS; un manipolo di stalinisti incapaci di fare i conti con la storia e con la realtà, di accettare le conseguenze di quanto era avvenuto due anni prima a Berlino e privi di quei pensieri lunghi che avrebbero evitato loro di condurre al suicidio definitivo il progetto politico che avrebbero voluto salvare ad ogni costo.
Perché Gorbačëv non venne messo in discussione in quanto filo-occidentale bensì, ed è l’aspetto più grottesco e difficile da accettare, in quanto riformista autentico, determinato a salvare l’Unione Sovietica cambiandone l’assetto e ripulendola dalle tossine anacronistiche di un’ideologia ormai sconfitta.
L’idea di Gorbačëv era quella di trasformare l’URSS in Unione delle Repubbliche Sovietiche Sovrane, mantenendone le caratteristiche e la grandezza, l’unità interna e i valori ma portando questo gigante dai piedi d’argilla nel futuro, al riparo da un’eredità scottante e ormai incapace di reggere al cospetto delle molteplici sfide della modernità.
Come spesso accade, purtroppo, il sogno di Gorbačëv, al pari di quello di altri riformisti, da Moro a Olof Palme, si infranse contro la grettezza e la stupidità degli opposti estremismi: da una parte, la pavidità e l’arretratezza mentale dei papaveri legati a schemi ormai ampiamente superati e desiderosi unicamente di conservare delle rendite di potere destinate a svanire nell’arco di pochi anni; dall’altra, la mentalità coloniale e imperialista di un Occidente in preda alle fole sulla “fine della storia” e ad altre fesserie che non hanno retto alla prova dei fatti ma, in compenso, hanno provocato danni inenarrabili, a causa dell’imposizione di un pensiero unico dominante la cui egemonia ha sprofondato centinaia di milioni di persone nel baratro di una crisi dalla quale in molti paesi, Italia compresa, dopo otto anni non siamo ancora riusciti ad affrancarci.
Anziché incentivare l’operato di Gorbačëv, dal quale a lungo andare avremmo tratto benefici anche noi, primo fra tutti un più proficuo rapporto con l’Unione Sovietica, gioimmo per la dissoluzione dell’URSS, per la diaspora delle sue repubbliche, per l’ascesa, in alcune di esse e nei vari stati satellite, di personaggi inqualificabili e tendenzialmente fascisti e per le tensioni che sconvolsero per circa un decennio un’area cruciale sia sul piano energetico sia per quanto concerne i delicatissimi assetti geo-politici mondiali.
Ci affidammo con voluttuosa incoscienza e perversa ferocia punitiva ad un personaggio, El’Cin, il cui unico ideale era la bottiglia e la cui visione del mondo non andava al di là della stanca ripetizione di mantra economici fallimentari ovunque ma assolutamente improponibili agli occhi di un popolo orgoglioso e con un forte senso della sovranità nazionale come quello russo.
In poche parole, anziché la via del dialogo, scegliemmo un liquidatore, con l’auspicio che della fu Unione Sovietica non rimanesse più nulla, che il suo ruolo di contraltare si dissolvesse per sempre e che anche il suo patrimonio storico, culturale e politico la smettesse di costituire un controcanto alla visione capitalista di un Occidente sempre più in guerra con se stesso e prigioniero delle proprie gabbie mentali.
Peccato che la storia non finisca mai, che certi slogan vadano bene per qualche fortunata pubblicazione ma non per comprendere la complessa realtà di un pianeta in costante evoluzione e che oggi la Russia di Putin sia un attore decisivo e imprescindibile su tutti i fronti caldi che terrorizzano Europa e Stati Uniti: dalla Siria alla Libia, senza dimenticare l’Iraq e la spinosa questione ucraina.
E a noi, in molti casi, non resta che assistere come spettatori inerti alle mosse e alle mediazioni di un Paese che abbiamo cercato di mettere a terra e che, al contrario, non solo si è risollevato ma la fa da padrone dove noi arranchiamo, ostaggi della nostra incapacità di assumere una decisione sensata che sia una.
Quanta miope arroganza nel tentativo di sbarazzarci di un nemico del quale, specie in un mondo multipolare quale quello che si è venuto a creare, non solo non possiamo fare a meno ma con il quale, volenti o nolenti, siamo sempre più spesso costretti a stringere inconfessabili alleanze!